sabato 10 febbraio 2024

The Bologna files / 1

Written probably during 2009 in Udine
Edited Sep 3, 2010 in Milan

Desidererei parlare ancora per ore, seduto s’un trespolo sotto a un nido di paglia o di legno, che è lo stesso. Parlare con te di che cosa intendi tu per nodi, concetti, costrutti e altri ammenicoli che la maggior parte delle persone, là fuori – non si sentono per niente, lo ricordavo meno silenzioso questo rifugio per merli e altri uccelli spauriti – non solo non sa cosa siano, ma nemmeno – e questo è fondamentale – vorrebbe né saprebbe saperlo. Che cos’è per te questa cosa che stiamo facendo come fatui vagabondi pazzi alla ricerca di un qualcosa che non c’è, ma che vorremmo ci fosse (a tal punto che dobbiamo costruircela, che è l’atto più malsano che conosca); che cosa se non quello che di più sensato c’è è cercare qualcosa che in sostanza non c’è; che cosa potremmo mai fare noi – a parte mordere dolci orpelli fatti per essere ingeriti aiutandoci con stecchini di legno come se avessimo becchi; e strofinarci le piume ogni tanto badando bene alle nostre rispettive leggerezze – se non questa cosa che è quanto di più sensato per noi e parallelamente e specularmente e perfettamente, letteralmente quanto di più insensato per tutti gli altri, tutti gli altri tutti meno due, che ci passano sotto distrattamente o quasi in una via dal nome essoterico, per il mio sentimento verso di te. Ci penso adesso. Abiti a un civico che è anche un numero primo. I numeri primi rischiano prepotentemente d’essere l’unica cosa plausibilmente affascinante dell’intera teoria matematica sì come è stata elaborata da sempre in Mesopotamia ai nostri caldi giorni in cui fuori è freddo e si respira ancora aria di neve in una Bologna che continua a stupirmi per quanto è bella, nonostante i palazzacci delle ortogonali a via Libia. Parlerei fino a notte di cosa intendi tu per quelle cose lì applicate alla cosa che stai facendo e quanti ancora discorsi faremo che non siano altro che picchiettare amore, e piroettare su zampe come di merli strani, ma pur sempre neri, che ritroverò a rincorrersi al mio ritorno nella casa con giardino in quell’altra città così strana, da quanto è bella. Fino a notte ma è ancora giorno. L’eclissarsi della luce in rapporto alle stagioni non mi ha mai aiutato così poco quanto in questo giorno in cui spero che tu non giunga mai a dirmi quella specie di frase che usano gli (sperabilmente altri) umani per fare una cosa che solo i militari potevano far loro in quanto gergo tecnico. Congedarsi. Infatti ti precedo perché non potrei sopportarlo, da te. Ti saluto io. Ti saluto e non ti saluto, pronuncio quelle interiezioni che servono solo ad armeggiare un altro po’ con il proprio cuore, facendolo balzare come pallone per un bambino non ancora corrotto dalla scoperta che rimbalza. Persino ballonzolare. Mi piace pensare adesso che sia un lanciarti il mio perché tu lo tenga, massaggiandolo, un po’ nelle tue mani, e non ha la consistenza proprio di quel cuore che vorrebbero venderci alla pubblicità, rosso e gommoso come delle caramelle mou di cui non ricordo il nome (e grande), ma nemmeno quella succosa fetidità di un fegato vero o umano, grondante. È qualcosa che si può tenere in mani altrui, ma non troppo, che sennò fa male. E così cerco di scendere dagli scalini uno a uno iniziando sempre dal piede destro. E la tagliente aria di ospedale fuori non mi fa così male. Il tuo semplice essere per me sì.

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