venerdì 27 agosto 2010

La prima volta non si scorda mai.

Written Aug 09, 2010 in San’ya, Hainan, China
Revised throughout August in various localities of mainland China
Last revised Aug 27, 2010 in Milano

L’aeroporto era piccolo ma sembrava tutto nuovo, carino. Tetto in legno con travi, spiovente, alla cinese. Entriamo da fuori attraverso un gate dedicato a passeggeri provenienti da Hong Kong, Macao e Taiwan. Il controllo passaporti prima mi indispettisce un po’ per l’attesa, ma è più la stanchezza, forse. Il personale è il primo elemento diverso –
Hanno la divisa verde militare questi qui, e le camicie verdino più chiaro a maniche corte, e hanno volti più duri, volti più duri – ma dove sono quei commessi di Hong Kong tutti sorridenti, coi loro tagli modaioli e occidentali, dove sono gli stewart di terra così gentili e incravattati, tutti questi tizi che entrando e uscendo da grattacieli e centri commerciali, passaggi sopra autostrade cittadine che non sai mai se sei dentro uno spazio pubblico o un negozio, e hanno divise tutte diverse, e sembrava che non esistesse la polizia lì, e che non ce ne fosse bisogno soprattutto – la stanchezza tende a innervosirmi ma mi innervosisce ancor di più il tentare di dissuadere il nervosismo da stanchezza, ma ho paura d’innervosirmi, perché ora sono qui, davanti a un ufficiale dell’Immigrazione della Repubblica Popolare, e ha la divisa verde oliva questo qui, la camicia verdino appena un po’ più chiaro con le maniche corte; ci mette un po’ a controllare il tutto, e c’è un collega subito al di là del gabbiotto di questo, che sta ritto in piedi e sembra sorvegliare le cose lì attorno, e io non voglio certo dare nell’occhio, ché poi neanche c’avessi qualcosa da nascondere, e che c’ho da nascondere io? Niente, sono qui in viaggio di nozze, figurati – un timbro, poi un altro timbro, sfoglia veloce le pagine del passaporto questo ufficiale, eh? Beh probabilmente ne ha sfogliati di passaporti, anche se non so quanti italiani… - e adesso va bene, via verso la Cina, via verso qualcosa che mi hanno detto che è un hotel di lusso – ci sono tanti orientali vestiti bene sul volo, e vengono tutti qui a San’Ya come noi – anche Giulia si libera e corriamo verso il nostro autista, diverso dal tarda mezzetà, tinto arancione stile coloniale che ci aveva accolto a Hong Kong in un parcheggio coloniale s’un pulmino coloniale con cambio automatico coloniale…

Ouch se soffoca anche questo caldo, non saprei non ci sono i pullman double-decker del Sightseeing non ci sono gli aerei e le navi del traffico della Baia ma qui l’umidità ti entra nelle ossa, ti prende subito alla milza e ti torce il respiro nelle budella – ma come hanno fatto quei deficienti degli americani a starsene undic’anni in guerra qui – scoprirò più tardi dalla lonelyplanet che siamo alla stessa latitudine del Vietnam e delle Hawaii, e dal primo nemmeno tanto lontani di longitudine, deh – è questa la prima sensazione quando finisce la tettoia a pagoda del piccolo aeroporto, “arrivi per provenienti da Hong Kong, Macao e Taiwan”… temo per la parte di aeroporto che accoglie i
mainlanders, ma ci penserò davvero solo più tardi – e poi via – valigia più grande nell’abitacolo di questa che sembra una specie di Avensis, credo sia giapponese, forse addirittura Toyota come le sembianze, ma non posso giurarci ora – nell’abitacolo ma a me sembrava ci fosse lo spazio dietro, nel bagagliaio, o forse lì il Nostro aveva qualche trabiccolo che ingombrava

la pioggia tropicale mentre scrivo nella notte dell’Isola di Hainan finisce

e via ma non più spediti come a Hong Kong, non più attraverso vialoni che non fosse il grigio prevalente il colore, del cielo delle strade del cemento del mare, non fosse, parrebbe di essere a Miami o a Luanda, e non a Hong Kong – a tutt’altro passo di marcia, e di aria condizionata ce n’è ma il Nostro la usa con parsimonia, aggiustando spesso la manopolina e le bocchette, e… ma come guida, che stai facendo? Non si innesta la terza così presto, non fare questo a un italiano, non a un appassionato di guida, - ripete la stessa operazione per quarta e quinta, Dio, saremo a cinquanta scarsi, e lui è già in quinta, e stessa cosa per le scalate, e via, si va – vialone costeggiato di palme che parrebbe d’essere a Miami, o a Lahore, non fosse che per il color madreperla del cielo, che è simile a quando da noi sta per scendere un diluvio, o quello che noi chiamiamo diluvio, perché che cosa sia veramente un diluvio lo sanno solo in due, Noè e i cinesi (ma purtroppo, qualche giorno dopo, molto meglio l’avrebbero saputo i pakistani), potremmo essere in una qualunque bella metropoli tropicale ben tenuta occidentale o africana, non fosse che per delle specie di piccolissimi mulini a vento bianchi, nuovi, che girano attaccati poco sotto la luce dei lampioni, e potrebbero essere giostre, ma anche strani ammennicoli che il Governo cinese ha installato per obiettivi a me sconosciuti ma senz’altro temibili, direi di sicurezza, di intelligence o comunque volti al controllo delle anime della popolazione o dei turisti; e via – ma questo è solo il viale d’uscita dall’aeroporto, ché non so cosa ci aspetta, ma quando arriva è sicuramente inaspettato e la prosa deve farsi più contorta e contrita ancora

Palazzi palazzoni Dio una motoretta – ma che fa? – è completamente contromano su un’autostrada ancora palazzi non finiti in costruzione in costruzione sembra tutto dannatamente in costruzione ma chi ci abita forse sono pieni di cinesi già lì in questo momento ma il grigio del cielo non mi permette di intravvederli,
palazzi palazzoni palazzi in costruzione un po’ diversi da quelle torri agghiaccianti di Lantau e vicino all’aeroporto di Hong Kong ma comunque impressionanti, non saprei dire se migliori o peggiori, perché qui anche le categorie di giudizio si sfaldano e si ammorbidiscono come le milze esposte all’umido delle due; il vialone si fa ancor più grosso a tre corsie frastagliato di rotonde enormi in cui veicoli – macchine berline medio taglio grosse BMW qualche suv motorini motorette tutti i motorini qui hanno i pedali e spesso glieli vedo anche usare biciclette bici con rimorchio tricicli; ma pochi quadricicli e risciò, qui non c’è spazio per la Cina dei risciò e delle bighe a traino umano di piloti con cappello spiovente di un quadro preso a Canton e appeso alle pareti oro-ocra di uno studio di bambini affacciato su edere di periferia udinese quando battevano ancora gli anni novanta; o meglio non c’è tempo, non c’è più tempo per questa rappresentazione stereotipata del Grande Paese della Tradizione – qui tutto viaggia a mille, il turismo che ancora faccio fatica a inquadrare in questo viaggio dell’assurdo, leggerò, cambia completamente il volto di quest’isola dai contorni strani che fino a pochi anni fa era il confino per i dissidenti del Partito,
Il Partito, sì proprio il dannato temibile Partito Comunista Cinese

e ancora carri carretti camion camioncini camionette moto motorini e motorette (financo motocarrozzette), carichi di ogni genere e dalle varie portate – laterizi foglie di palme pacchi fatti di carta da pacchi e carta da sacchi di patate e caffè tipo sudamericano tipo nei film di Bud Spencer ambientati in qualche posto sudamericano, ma soprattutto con una costante – caricare persone in qualunque modo possibile e secondo le combinazioni le più diverse, tre in moto uno di fianco al centro gli altri due agli estremi uno che guarda davanti l’altro indietro è solo una delle molteplici combinazioni possibili; vedo procedere nell’altra direzione un camion grosso con cassone per ghiaia – di quelli che da noi sono guidati solo da uomini barbuti e con i coglioni grossi così, e che noi ci figuriamo siano le cose mobili più pesanti che abbiamo mai visto – ci sono delle persone nel cassone, Dio, delle persone, probabilmente sopra qualcosa che potrebbe essere ghiaia laterizi ferraglia o anche listoni di marmo o di travertino per uno dei resort dell’isola, visto che il cassone è molto alto e le facce vietnamite delle donne – donne – che sporgono da esso si vedono bene;

facce e corpi di donne e uomini su queste bici moto motorini e motorette, tutti vanno piano compreso il Nostro, che ora in uno slancio sarà a sessanta in quinta, e se potesse metterebbe la sesta, tutti tranne quelli coi suv oscurati e Dio, passa Quello, passa una cosa che non ci sta proprio tra queste specie di mangrovie il color plumbeo del cielo i falansteri non finiti le camionette e le facce vietnamite di piccoli vietnamiti che tagliano foglie di palma ai bordi delle strade con le falci – passa una limousine giallo fosforescente che non l’ho vista, così, neanche a New York a Capodanno, passa e non c’entra niente, il giallo fosforescente non riluce nel piombo vestito di verde foglia di palma, non riluce

facce vietnamite olivastre e ora rese di un color terra di Siena dal sole, quali coperte completamente da cappello cinese di paglia a tre piani e fazzoletto, liberi solo occhi raramente protetti da lenti solari, quali completamente esposte, su bici moto motorini e motorette, e corpi – corpi magri smunti molto più magri dei già magri ometti e signorine degli alberghi di Hong Kong, che piaceranno chissà quanto ai maniaci della moda anoressica occidentale, bassi bassini e con le spalle strette, ma questo lo realizzeremo meglio più avanti quando conosceremo i dipendenti del nostro albergo

e la pericolosità, il governo assoluto del caso nella regolazione dei rapporti tra queste entità veicolari, macchine moto motorini e quello che già sapete d’altro, il Caso quale unico re oltre alla Lentezza principio ordinatore immanente e alla Guida a Destra come restaurato ordine delle cose (e venendo da Hong Kong questo è l’unico sollievo visivo e direi intellettuale che si offre al viaggiatore occidentale non britannico), il Caso che fa sì che in autostrade a tre corsie per senso, carretti trainati da umani possano sbucare attraversare e porsi sulla corsia di destra procedendo contromano normalmente; che alle rotonde la modalità di regolazione sia nemmeno “il più forte o il più veloce”, ma semplicemente “quello che capita passa per primo”; che io trasalisca letteralmente, nonostante la velocità ridicola, quando il Nostro ci sembra puntare letteralmente una di quelle entità veicolanti e fluttuanti in questo mare grigio di bitume – come a volerla, in italiano volgare,
tirare sotto, salvo correggere all’ultimo con una parvenza di convenienza nell’allargare una curva o qualcosa di simile a volerselo proprio immaginare.

E ancora palazzi palazzoni e cartelli in cinese, grossi cartelli del tutto incomprensibili tappezzano gli stradoni, e le palme paiono verde militare anche loro, e il cielo grigio MIG russo. Le targhe con su ideogrammi e un solo carattere di quell’altro alfabeto, qui minore – a parte i numeri, sorprendentemente comuni tra i nostri due pianeti. Audi Q7 ci passano da destra e facce vietnamite ci scrutano da dietro qualche palma, quelle che non riposano. Qualche ragazzo, sparuto, ha caschi più da cantiere che da motociclista. E non saprei dire se donne vietnamite su cassoni di camion di ghiaia dovrebbero o meno portare caschi omologati, non saprei.

domenica 25 luglio 2010

Ospedali.

Written Nov 17, 2009 in Udine
Last revised Jul 25, 2010 in Bologna

Quando urlo nel letto torcendo appena la gamba sull’interno, capiamo entrambi che dobbiamo andare. Non riesco a ricordare se G. mi abbia confessato subito, o solo successivamente, di essersi praticamente addormentato forse un minuto prima del mio urlo. Quello che ricordo bene è la sua faccia, un misto tra stanchezza infinita e rassegnazione benevola, nell’alzarsi dal letto per aiutarmi a vestirmi.

Sul taxi incontro praticamente la persona più felice e serena di questo mondo. Non che non ce ne siano, a Bologna, di “vecchietti” così. Questo non so nemmeno se chiamarlo “vecchietto”, tanto è vispo e tanto è pulito il suo viso, anche attorno agli occhi, mentre mi parla di quando ha fatto il militare in Friuli – a beneficio dei non friulani che magari non lo sanno, circa l’80% dei militari di leva italiani negli ultimi 60 anni hanno fatto “il militare” in Friuli… - e mentre mi spiega, fiero, come funziona bene il sistema automatico di assegnazione delle chiamate della Cotabo. Si rivela cruciale appena lo vediamo, prima di salire in macchina, quando ci dice che il S. Orsola non ha un pronto soccorso ortopedico. E quindi via al Maggiore, perché il mitico Ortopedico Rizzoli chiude il pronto soccorso di notte per lavori. Mi strappa un largo sorriso, poi, quando illustrandomi le magiche virtù del sistema satellitare legge il mio cognome sullo schermo (o glielo dico io?) e fa la rima con “Timau”, il fiume sul quale è stato così impegnato durante la sua leva. Ironia della sorte, e coincidenza che mi rincuora, nella sua “scorciatoia” verso l’ospedale che evita i viali, scorgo il nome di una laterale – via del Timavo.

L’Ospedale Maggiore è un edificio piuttosto imponente e molto nuovo, che mi aveva già colpito in una precedente occasione. Passo il triage tranquillo, e non scorgo situazioni particolarmente disperate. Mi mettono subito su una barella, quattro domande e via, si vede che mi sono fatto male alla gamba e quindi niente saturazione o cose spettacolari alla E.R.. Mi spostano davanti alle porte del pronto soccorso ortopedico, o sala gessi. Qui la situazione è già più caratteristica: un sudamericano basso e smilzo con un paille arancione sbiadito è afflosciato su una barella accanto alla mia, e ogni tanto emette suoni confusi e fastidiosi, rigirandosi malamente sul suo letto mobile; qualcuno gli ha messo addosso una coperta di lana modello ospedale, che però lui ha scombinato variamente e a suo modo. Elemento di tristezza #1. C’è una coppia che G. e io non capiamo bene: lui guaisce di dolore piuttosto frequentemente, rigirandosi su se stesso con estrema libertà, al punto che risulta difficile capire quale sia il suo problema – in ortopedia, di solito uno rimane fermo almeno con l’arto malato… La signora che gli sta a fianco, magrezza eccessiva e faccia rassegnata che contrastano col giubbotto firmato, sembra essere un po’ troppo indifferente alla sofferenza del tizio, come se non gliene fregasse più di tanto, oppure sapesse bene che il tenore dei “lamenti” è spoporzionato rispetto alla ferita. Elemento di tristezza #2. Ci consola il passaggio di una bella ragazza in lettiga con gesso al braccio, accompagnata da uno stuolo di amici: saranno almeno cinque o sei, per fortuna non rumorosi, tra i quali una ragazza sospettosamente bellissima, forse ritoccata in qualche punto ma un po’ troppo giovane per averne davvero avuto bisogno.

L’attesa in questa piccola insenatura di corridoio è a dir poco estenuante. Saranno passate le 3 e mezza. Prima cerchiamo di tenerci svegli e farci compagnia parlando un po’, poi il sonno appesantisce il mio umore già sfidato dalla paura che l’ortopedico mi faccia malissimo, dal fastidio che mi possano mettere un gesso che mi farà uscire dai giochi per parecchio, e dal già provato urto con l’amara, cruda realtà del pronto soccorso di notte. Ringrazio il cielo che ci sia G. con me: lui d’altra parte non perde un briciolo della sua allegria e cordialità, anche se il suo volto esprime stanchezza da tutti i pori. Chiudere gli occhi e riposare un po’ mi dà un sollievo enorme, quasi insperato. Anche G. si riposa.

La prima visita è sconcertante da quanto dura poco. Letteralmente non ho il tempo di entrare con tutta la lettiga nella stanza: il medico, sulla trentacinquina con un bel volto incorniciato da capelli brizzolati e forse un po’ appesantito da una barba sottile con pizzetto, mi viene incontro come se volesse limitare l’invasione della mia “malattia” nel suo studio, tenerla al di fuori. Mi rivolge una domanda frettolosa e generica, del tipo “Cosa abbiamo qui”, e non mi dà l’impressione di stare ascoltandomi davvero quando farfuglio la dinamica dell’incidente. Solleva la gamba e muove un pochino il ginocchio in senso laterale, a destra e a sinistra, come a voler verificare che polpaccio tibia e perone siano ancora attaccati a coscia e quadricipite. Accade tutto così rapidamente che non ho neanche il tempo di pensare che, miracolosamente, non mi sta facendo male – il medico, intendo, non mi sta praticando una di quelle “manovre che ti rimettono a posto quella cosa che era uscita dalla sua sede”, incubo stratificato di racconti in cui nasi, spalle, giunture, ossa vengono ulteriormente martoriati dal medico, dopo essere stati lesi, “per una migliore guarigione”. Dopo una specie di premessa interlocutoria in cui spara a gran velocità un professionale “grossolanamente, di solito in situazioni di questo tipo viene interessato il collaterale mediale”, il responso finale è talmente scontato da provocarmi, ora che ci penso, una smorfia di reazione per eccesso di banalità, pur riconoscendo che questa sia la prassi medica e ortopedica – non è che ci sia tanta creatività, neh, nel constatare che ti sei devastato qualche arto, tentare di capire più o meno come, e poi immobilizzarlo nel modo migliore perché il tempo, il dannato tempo, lo guarisca da solo. Forse è il come lo dice, che aggiunge – o per lo meno non toglie – banalità alla banalità intrinseca nell’indicazione; ma sì, dài, lo avete già intuìto, cosa può dire un ortopedico al pronto soccorso dopo che ti sei “fatto male” al ginocchio o a qualunque altro arto, dove vuoi che ti mandi, la riposta già la sai, ti verrebbe da dirgli “guarda, ci vado io senza che me lo dica tu”, è una strada a senso unico, un giallo di cui è già stato rivelato il finale.

Beh, facciamo una lastra, e poi vediamo.

Mentre G. cerca il nome del ragazzo della sorella, che lavora qui, sulle porte della Radiologia, il mio ginocchio viene fotografato in un paio di posizioni. Ulteriore attesa del referto e della chiamata dell’ortopedico – un altro – che leggerà il referto (o per lo meno me lo auguro) e rivaluterà. La seconda visita si svolge secondo modalità ben diverse: diversa la sala, visibile in tutta la sua lunghezza dalla mia ottica particolare – avete presente la sigla di Scrubs, o una qualunque soggettiva ripresa dalla testiera di una lettiga (scena iniziale e finale di Carlito’s Way? O erano oggettive quelle?), ecco, è una visuale particolare quella che vi si spalanca davanti mentre vi trasportano, e mi preoccupo di ogni angolo in cui potrebbero farmi sbattere – lunghezza che fa tutt’uno con la distanza di questo secondo, più anziano medico, che adotta una forma di contatto con il paziente opposta a quella del primo. Se quello mi era venuto incontro, respingendomi fuori immediatamente, questo se ne sta ben lontano da dove sono io, parcheggiato di fronte a una scrivania, risultandomi più lontano da essa che se fossi seduto; e lui non è già dietro la scrivania, bensì più in là ancora, seduto di lato davanti a un altro tavolo dove c’è un computer, sul quale sta scrivendo qualcosa. Sulla sessantina scarsa, con abbondanti capelli bianco-grigi tagliati corti, e ordinatamente saldati all’addomesticata barba dello stesso colore, al mio stanco e monotonico “buonasera”, un po’ fuori luogo dato che saranno le 5 di mattina, risponde unicamente con un’occhiata tra l’indifferente e il supponente, rigirandosi subito a guardare lo schermo. Quando si alza, chiede “Com è successo” in forma puramente retorica, tanto da non meritarsi nemmeno il punto di domanda mentre scrivo, degno solo di chi sia veramente interessato a una risposta dell’altro. Mi prende la gamba e fa qualche movimento in più rispetto all’altro giovane, impettito collega, soprattutto lateralmente, poi prendo l’iniziativa e gli dico dove mi fa male, anche solo alla palpazione. Reagisce incredibilmente in modo interattivo, quasi empatico, dicendo una cosa del tipo “ah sì, è proprio qui che le fa male, eh?”, ma forse ci metto del mio, ora, ricostruendo la vicenda e imbellendo qualcosa che nella realtà è stato più freddo.

La valutazione non è fulminea come il beh, facciamo una lastra e poi vediamo, perfetto nella sua sintesi e direi quasi letterariamente interessante dell’altro medico, ma comunque rapida, svelta. “Beh mi sembra stabile,”, seguìto da uno scambio di sguardi con l’infermiera, quasi complice, oppure no, forse una sorta di domanda implicita, come a voler sollecitare un’approvazione in lei, qualcosa che scardina per un attimo la prassi medica, la gerarchia – un ortopedico che chiede un’approvazione di un parere clinico a un’infermiera? – oppure forse è solo un modo gentile per chiederle di procedere con la realizzazione pratica di ciò che lui prescrive, e cioè, subito dopo: “mettiamo una ginocchiera di cartone, no?” – ecco, questo rientra molto più all’interno della procedura: diagnosi, terapia: e indicazione all’infermiera.
Forse mi dice anche “adesso le scrivo qualcosa”, ma non potrei giurarci. Quello che è sicuro è che sul momento non mi dice niente che possa assomigliare a una diagnosi o a un referto, lasciandomi tra il deluso e il rassegnato, muto.

L’infermiera è molto brava mentre mi fascia tutta la gamba, dalla caviglia all’anca, con plurimi strati di cotone batuffoloso e garze – chiudendo in un trionfo di fascia elastica che tiene tutto insieme. Parla in tono basso, educato con l’altra infermiera, quella che mi ha portato dal triage al Corridoio della Tristezza, e mi stupisce rivelando una curiosità infinita e un’accurata conoscenza della geografia africana nel momento in cui discorrono di una specie di “settimana di ferie extra obbligatorie a maggio”: “vorrei farmi lo Yemen del Sud o il deserto del…”. La mia memoria non mi assiste nel ricordare la sua seconda destinazione preferita, né forse la mia conoscenza geografica eguaglia la sua, non arrivando a coprire il buco. Leggo qualcosa di profondo dietro la sua corporatura mingherlina, la capigliatura anonima, ingrigita ma tinta leggermente; fatico di più a capire che cosa ci sia dietro l’altra infermiera, dall’aspetto semplice e dai modi un po’ burberi, decisamente più appesantita e con dei bei capelli biondi raccolti in una classica coda di cavallo sopra la nuca. Probabimente subisce la “notte” a giudicare dalle pur non esagerate occhiaie grigiastre, ma non avrebbe un brutto viso; più che altro, forse, è disingentilito dai modi. Mi ricorda una certa semplicità friulana del portarsi.

Alle sei di mattina ricevo referti ortopedici, radiologici e lastra in CD-ROM (!) di cui mi preoccupo subito: se un medico di un altro ospedale vorrà vederla, magari non riuscirà a leggere il CD... Il taxi arriva con qualche difficoltà – forse il sistema non era così intelligente come diceva il vecchino? I furgoni della ristorazione animano l’uscita del pronto soccorso, per altro ancora buio e deserto. Io mi sento veramente molto, molto meglio nonostante la stanchezza. Dopo la lastra mi ero già sentito molto più sollevato. Non ho elencato qui tutti i personaggi del Corridoio della Tristezza. Immagini di una vecchia accettazione al triage del Sant’Orsola erano affiorate durante la lunga attesa. Non c’era solo il fatto del dolore fisico. Quando arriva così tutto insieme a volte mi sembra di non poterlo reggere, e faccio troppe associazioni. L’incidente a volte si lega a un senso di colpa per quello che avremmo potuto fare per evitarlo, o per la probabile causa dipendente da un nostro atteggiamento che non ci è piaciuto. E fermo in attesa nei corridoi di un pronto soccorso, non ho mai potuto fare a meno di rimanere colpito dalla varietà di situazioni umane che ci si presentano, tutte segnate, anche se in gradi variabili e che spesso non riusciamo ad afferrare, da un che di tragico.

Distorsione ginocchio dx con risentimento sul collaterale mediale. Non si evidenziano immagini riferibili a linee di frattura. Si confeziona ginocchiera di cartone a dx, analgesici al bisogno, visita successiva 7 gg.

La moderata bontà della prognosi riflette perfettamente il mio stato mentale al rilascio.

martedì 20 luglio 2010

Senso.

Written Jul 20, 2010 in Bologna
Revised Jun 19, 2011 in Milano

Non chiedetemi una presentazione ufficiale. E’ solo una cosa che volevo fare da un po’ di tempo, forse molto, ma con una certa insistenza con me stesso da un annetto e qualche manciata di mesi. Ho un po’ di cose da dire che spaziano dalle cose di cui mi occupo ad altre più intime, e vorrei trattare le prime più liberamente che nel mio lavoro, e le seconde porle, a volte gentilmente a volte urlandole, a qualcuno là fuori, invece che tenermele sempre dentro (la testa o il disco fisso).

Magari nemmeno serve, una presentazione. Scrivo queste righe di getto in un ambiente a me congeniale in una delle (tante) città in cui ho vissuto negli ultimi, convulsi anni. Butto là giusto qualche ipotesi di senso per farvi capire com è nata l’idea.

Uno. Qualche anno fa sono rimasto per tre mesi in una grossa città americana, ed è stata un’esperienza agrodolce condita da lati oscuri alternati, o mescolati, a grandi euforie. Sull’onda di queste ultime aprii un blog che si chiamava madnewyorker: lo seguirono in pochissimi (anche perché non fui molto prolifico: due post, e pure un po’ lunghetti forse), qualcuno entusiasta. Adesso spero ci sia qualcuno in più che forse, una volta ogni tanto, ha voglia di discutere dei problemi che solleverò o magari prova semplicemente piacere nel leggermi.

Due. Per lavoro, negli ultimi 5-6 anni ho letto tantissimo di argomenti che intuite o di cui sapete anche voi, se state leggendo queste righe. In alcuni, rari casi ho seguito pubblicazioni e riviste in modo abbastanza costante, che esulassero da libri o altri luoghi di espressione della “conoscenza di base” – questa cosa sfuggente e fuori dal tempo, che a dispetto del suo nome tutti ignorano, fuorché gli specialisti – funzionale agli obiettivi lavorativi di quel momento. Non sono un lettore di quotidiani né posso definirmi, in generale, interessato al quotidiano. Ma ho alcuni interessi profondi di cui vorrei discutere qui con voi. Spesso, tra quelle rare riviste di cui sopra, mi vedrete partire da qualche spunto della "Domenica" de Il Sole 24 Ore, che è stata e rimane un riferimento importante per questioni di economia dell’arte, cultura in genere, letteratura e "scienze sociali" come economia e psicologia (senza dimenticare, anzi privilegiando la filosofia e i saperi sociali ai fondamenti di quelle discipline). E, negli ultimi mesi, fortunatamente il tempo e l'interesse nei confronti di cose che non fossero, appunto, funzionali all'esigenza professionale del momento sono aumentati, e così gli spunti. Per i post su questi temi, cercate la tag: culturaeconomia.

Tre. Decido di rimettermi a scrivere di tanto in tanto, a intervalli anche molto lunghi. Quando capita di solito mi piace, anche se non sono mai soddisfatto al 100% di quello che scrivo (ma questa è la vita). A fine 2007 ho esposto a un amico un’idea per una cosa, buttata giù in fretta e furia in quello strano, sovraccarico Natale udinese, e lui leggendola mi ha detto: che bello. Poi non se n’è fatto nulla (quella cosa giace tuttora in forma di proverbiale sogno nel cassetto), ma intanto aveva risvegliato in me il piacere di scrivere, scrivere qualcosa. È seguìto un intervallo di vita lungo (come al solito), ma soprattutto travagliato (più del solito), al termine del quale mi si è liberato del tempo e dell’energia mentale per scrivere. A volte ho anche pensato di aver ripreso per disinteresse o scarso coinvolgimento nei confronti di quello che stavo facendo come lavoro. Questo non mi piace. Ripensando la cosa, può semplicemente essere che adesso ci sia del tempo, e forse dell'ispirazione, per scrivere qualcosa di piacevole, fuori dal lavoro, magari trattando anche di cose che col mio lavoro c'entrano eccome. Così qualche mese fa ho chiesto allo stesso amico di cui sopra come si fa a mettere su un blog, che poi è una domanda inutile, ché non ci vuole davvero nulla. Ed eccomi qua, pronto a partire.

A tra qualche post, spero.