martedì 6 settembre 2011

La Cina in testa.

Written Sep 5, 2011 in Milano
Revised Sep 6, 2011 in Milano

Al volgere di un’estate di vacanze che, dato il clima, avrei forse pianificato in senso più spiccatamente montano che marino, mi imbatto (in montagna dove passo proprio gli ultimi giorni) in un libercolo dal titolo e dalla copertina intriganti: Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente (di François Jullien, Laterza, 2006).

Di che si tratta?
Jullien – docente di filosofia all’Università di Paris-VII – analizza il concetto di efficacia così come si è evoluto in Occidente (partendo dalla filosofia greca e facendo ampio ricorso alla letteratura strategica militare) e lo pone a confronto con lo stesso concetto, inteso dalla cultura cinese (anche qui, ricorrendo largamente all’analisi di filosofi e testi della Cina antica, con alcuni, più brevi “salti” ad evoluzioni ed applicazioni più moderne degli stessi nel Continente asiatico).
In Occidente, afferma Jullien, “efficacia” si riferisce al raggiungimento di obiettivi prefissati nel modo più semplice ed economicamente conveniente. (I bocconiani, ad esempio, vengono ideologicamente perseguitati da tale concetto, e dalle nozioni “sorelle” di “efficienza” ed “economicità”, fin dai primi anni del proprio cursus studiorum). L’impianto concettuale alla base di tale costrutto fondamentale si poggia, dalla filosofia greca appunto, sui due pilastri distinti di “piano o progetto” (ideale), e “realizzazione pratica”, “implementazione” (la traduzione in “realtà effettiva” del piano ideale). Efficaci sono quegli uomini e quelle azioni che più si avvicinano a quanto pianificato, e lo fanno servendosi della “strada più breve” o più conveniente.
D’altra parte, in Oriente, Jullien rintraccia nei filosofi “classici” cinesi (Sun Tzu e Confucio tra i più noti) alcuni concetti che vanno a formare un’idea di efficacia assai differente. Tali concetti si richiamano all’idea di sfruttamento “a proprio vantaggio” della posizione in cui ci si trova: efficace è lo stratega che riesce a far “fluire” il corso delle azioni a suo vantaggio, in corso di svolgimento piuttosto che rispetto a una pianificazione predeterminata che vada “realizzata”, cioè a cui si tenti di far aderire la realtà (pur sapendo benissimo che non ci si riuscirà). Ne consegue un atteggiamento nei confronti della realtà che è più di “assecondamento”, di semina e di paziente attesa del momento favorevole, per i Cinesi, che di modifica o “ribaltamento”, come si evince invece nelle grandi narrazioni di matrice occidentale (qui Jullien si richiama ampiamente alle epopee belliche ed eroiche in diverse epoche, come ad esempio in Omero o nel Romanticismo). Corollario di tale distinzione è che, mentre in Occidente, appunto, il grande stratega è un eroe, colui che riesce a imprimere al corso delle cose la direzione desiderata (e vi riesce quanto più essa sia stata accuratamente pianificata), e in quanto tale viene celebrato, in Oriente il grande generale è invece un attore “silenzioso”, e lo è tanto più quanto maggiore è il suo successo: uno sfruttamento “efficace” di una posizione di partenza non è un’azione che crea scalpore, si misura sul lungo periodo e tale abilità è tanto presente quanto meno è eclatante. È evidente come tali considerazioni si estendano all’àmbito di applicazione della strategia che fa riferimento alla guida di grandi organizzazioni manageriali.
Fatto non di poco conto è il notare come, nella nostra modalità di pensare l’efficacia, vi sia sempre uno scarto tra il modello e la realizzazione: la guerra (ma anche la strategia di un’impresa) “non si svolge mai come la si era progettata e preparata” (p. 26), e perciò il modello teorico ha sempre una funzione asintotica, astratta. Clausewitz nota come Napoleone abbia vinto ad Austerlitz sfruttando il favore della nebbia, contro le previsioni della coalizione austriaca; la recente serie I Kennedy ci presentava pochi giorni fa la tormentata decisione, da parte di John Fitzgerald e quindi degli USA, di appoggiare l’invasione di Cuba da parte dei guerriglieri guatemaltechi nell’operazione “Baia dei Porci”, il cui disastroso fallimento viene giustificato così dai generali statunitensi: “non abbiamo previsto la luna piena” (ciascuno si può divertire a setacciare la propria memoria alla ricerca di simili episodi di storia bellica). Sul contrapposto versante orientale, lascio al lettore il piacere di ritrovare interessanti esempi di applicazione della teoria del “fattore portante” e del “potenziale della situazione” (due nozioni associate alla modalità cinese di pensare l'efficacia) ad eventi politici anche moderni negli ultimi capitoletti del testo.

Jullien – si tenga presente che il pamphlet è una trascrizione di lectures “dal vivo” – argomenta con ritmo incalzante e continui esempi la sua tesi principale, oscillando continuamente tra citazioni tratte dai grandi testi della filosofia ma anche dell’epica (e più in generale del pensiero) delle due grandi tradizioni prese in esame, ed esempi di “applicazione diretta della cultura” che sono più immediati, quotidiani (come il ritrovare nelle nostre lingue europee un modo di dire che si richiama alla nostra peculiare concettualizzazione di efficacia); tale modalità argomentativa rende da un lato assai godibile la lettura e la comprensione, dall’altro lascia un po’ spiazzato lo scienziato sociale di formazione (come chi scrive), che ogni tanto langue alla mancanza di un riferimento a un esperimento o a una ricerca sul campo a supporto di quanto affermato.
Ma tornando al cuore del contenuto, allo studioso di management sovviene immediatamente la distinzione tra teorie strategiche della pianificazione “classica” (Andrews negli anni Settanta) e la visione “emergentista” (es. Mintzberg), in cui alla insistente prescrizione di un’adeguata pianificazione (e a un’aspettativa di efficacia della strategia tanto maggiore quanto più essa possa essere e sia pianificata correttamente) delle prime, si contrapponeva un’esame di situazioni in cui la strategia come sequenza logica e coordinata rispetto a un concetto di efficacia emerge, appunto, dall’azione stessa (è celebre la distinzione tra diversi pattern di strategia possibili, quello deliberato, quello emergente, ecc.). (A sua volta, tale distinzione ammicca alla tripartizione positivismo-soggettivismo-processualismo, derivante dalla – peraltro scarna – elaborazione epistemologica nelle teorie organizzative e manageriali prevalenti, e in particolare alla dicotomia tra il primo e il secondo termine, dove quest’ultimo identificherebbe il riconoscimento ex post di un “ordine”, una sequenza logica tra le azioni già messe in campo, e questa razionalizzazione a posteriori costituirebbe la strategia).

Ma forse, piuttosto che ricondurre le suggestioni di Jullien alle teorie manageriali, interessa di più sforzarci di capire quali lezioni potremmo trarre dalla piacevole e ben documentata lecture di François Jullien.
Un primo esercizio in cui la lettura del libro ci potrebbe aiutare è quello di ampliare i nostri orizzonti in termini di “sguardo sulla Cina”: invece che vederla semplicemente come “il continente della concorrenza sleale” e dell’opaca gestione governativa sul piano dei diritti umani e dell’informazione, potrebbe essere utile (per molti) rifocalizzarla come grande custode di una tradizione millenaria di pensiero, autenticamente altra rispetto a quella occidentale e, come tale, portatrice potenziale di una visione nuova e originale anche rispetto alla strategia e ai temi manageriali.
Uno sguardo “altro” non sospettoso sull’Oriente (e potrebbe facilmente esserlo quello di noi occidentali, che approdando in Cina abbiamo pur sempre il vantaggio di essere esposti a qualcosa di non eccessivamente elaborato preventivamente, se non altro per distanza culturale), attraverso la lente del filosofo-esploratore Jullien, può costituire inoltre un proficuo complemento alla comprensione di quella cultura per chi, come me, ha incontrato quel Paese in modo fugace e turistico, per quanto attento e curioso, nelle poche settimane concesse a un viaggio estivo e a qualche racconto di parenti o amici là emigrati. Che cosa ci ha stupito, cosa ha tradito (molto spesso in senso positivo) le nostre aspettative sul comportamento di quel popolo, sul carattere delle persone? Il tema va trattato in altra sede, ma quel che conta qui è che, leggendo Jullien, potremo forse sconfessare alcuni miti reciproci, “liberandoci dell’etnocentrismo culturale … apr[endo] i due pensieri l’uno all’altro … e circolare allegramente attraverso intelligibilità diverse e farle dialogare, in quanto i due diversi pensieri sono egualmente intelligibili (“logici”)” (p. 80).
E, indubbiamente, lo sforzo di aprire anche solo di un poco il vaso di Pandora di una cultura così vasta e millenaria, può servire a ridimensionarci: a relativizzare, cioè, la visione spesso egocentrica che abbiamo di noi in quanto cultura capace di superbe elaborazioni di pensiero e di immani “realizzazioni”. A porci in prospettiva, rispetto al “Grande Altro” da noi, come, parafrasando Jullien, si può definire l’Oriente estremo rispetto ad altre culture più vicine a quella europea e nordamericana dal punto di vista della matrice storica e culturale (vedi Medio Oriente); con le sue forze e le sue debolezze, ma soprattutto a-valutativamente, nelle sue caratteristiche distintive rispetto, appunto, alla nostra.

Per l’Occidente, che assiste ora con preoccupazione all’impressionante ritmo di crescita dell’economia cinese e ai gravi attuali problemi finanziari che attanagliano gli stati dell’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America – a essere messo in discussione, come sempre accade, è anche il modello culturale sottostante – “attrezzarsi a capire” diventa un compito sempre più urgente. Tuttavia, Jullien non manca, nelle ultimissime pagine, di riservare anche all’Oriente la necessità di comprendere l’“altrove distante” rappresentato dal pensiero di origine europea: questo diverrà forse necessario, secondo l’autore, quando il “potenziale favorevole della situazione” di cui la Cina beneficia oggi si esaurirà, e quella cultura dovrà fare i conti con le “questioni del senso”. Che cosa siano queste questioni lo lascio volentieri in sospeso qui: a beneficio del lettore, spero, a questo punto, incuriosito.

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