martedì 6 settembre 2011

Senza cambio ponte Stalingrado.

Written Sep 1, 2011 in Milano
Revised Sep 6, 2011 in Milano

A Bologna c’è un ponte, un ponte sulla ferrovia. È il ponte di via Stalingrado, e scavalca un dedalo immenso di binari che s’incrociano in una città che delle ferrovie è snodo, e dalle ferrovie è caratteristicamente attraversata in molti dei suoi quartieri. È un ponte alto, dunque, sulla sommità del quale si può anche ammirare una suggestiva skyline: io, ad esempio, la preferisco al tramonto.
Eppure un ponte serve per passarci sopra, non per fermarsi a guardare. Lo faccio in bicicletta per alcuni mesi, da quando ho trasportato la vecchia Galetti artigianale, con cui scorrazzavo (e scorrazzo tuttora) per gli accidentati pavé milanesi, in quel di Bologna, per il mio ultimo periodo lì. Abito in zona Fiera, e per il dipartimento – che senza sorprese si trova in zona universitaria – è la via più breve.
L’impatto col ponte è diverso se si sta andando verso il centro o viceversa: una lunga salita, e (sembra) meno pendente nel primo caso; un “muro”, piuttosto sfidante ma più corto, ad andare a casa. Il servizio strade del comune di Bologna è stato previdente: per gli automobilisti che sfrecciano al lavoro arrivando dalla tangenziale e dalla Fiera, due corsie (a seconda che, giunti alla Porta Mascarella dove il ponte butta nei Viali come un affluente nel corso principale di un fiume, si vada a sinistra e dritti oppure a destra); per chi esce dalla città, una corsia che però si trasforma subito in due appena il lungo declivio comincia a digradare seriamente. A dir la verità, come in molte altre strade di Bologna, non c’è spazio per il marciapiede e la pista ciclable insieme: in questi casi, praticità felsinea vuole che entrambi siano compresi nello stesso spazio, con delle strisce disegnate a segnalarlo. Comunque, questo non cambia la sostanza: il ponte, in bici, va affrontato nel suo manifestarsi essenzialmente come salita, impegnativa da entrambi i punti a valle.

Le discese sono bellissime. Quando vado verso il centro, rimango appena deluso dal sapere che durerà poco; la mia accelerazione progressiva sarà elevata: devo dosare bene i freni e preoccuparmi che i pedoni che incrocio, lenti nelle loro movenze da montanari improvvisati e incedenti a sguardo basso, mi notino e siano consci della mia corsa. Così, preferisco la discesa in direzione opposta: poco sforzo, piuttosto concentrato, a guadagnare il colmo del ponte, e subito l’ampia visuale della discesa che mi si dispiega davanti dà il respiro della montagna appena scalata; e, proprio come in montagna, batte sempre più forte il vento, anche se qui è un’illusione della velocità, un piccolo dono della gravità. Devo solo stare attento a quel tombino (quando, come la maggior parte delle volte, discendo dal lato sinistro del ponte) e all’uscita delle macchine dal complesso sportivo del dopolavoro.

La permanenza in cima dura poco, ma – complice qualche volta in cui sono a piedi – butto sempre un occhio all’orizzonte, specialmente verso la stazione: normale, poiché quello è il lato che faccio più spesso, ed è là che il sole va a buttarsi al crepuscolo: elementare bussola cittadina che mi ricorda, non senza un certo lieve stupore, che i punti cardinali valgono sempre, anche se si è smarriti dentro, e che via Stalingrado è una direttrice Nord della città. Dio sa quante volte ho pensato di portarmi la reflex e di fermarmi a immortalare quella ferraglia sfavillante d’incroci, tale che gli ingegneri ferroviari mi sono sempre sembrati i più intelligenti della categoria. Il fascino di quell’ammasso inestricabile di binari, penso ora, è anche un tardivo riflesso dei miei pensieri sognanti del primo periodo del dottorato, quando via Stalingrado non sapevo nemmeno dov’era – aveva pura entità sonora, facendo solo parte delle curiosità toponomastiche di quella città meravigliosa che mi lamentavo sempre di non riuscire a vivere. Ogni volta che camminavo, lungo la più piana, tipica e porticata via Indipendenza, dal dipartimento alla stazione (soprattutto il venerdì), pensavo sempre che stavo procedendo verso lo snodo baricentrico dell’intero traffico ferroviario italiano, e questo mi dava un senso di libertà (l’ebbrezza di poter andare ovunque, nonostante, di quel nodo, sfruttassi sempre le due solite direttrici Nord-est e Nord-ovest) che ho faticato a ritrovare dopo.
Non ho mai catturato, in forma di foto, il rossore brulicante di quella cartolina in controluce; né i rumori del ponte, che alcune volte ho pensato di fissare sul registratore per interviste: così tipici del veloce traffico automobilistico bolognese, rifratti sui parapetti in pietra dei tratti discendenti del ponte. Porto solo con me le facce, impenetrabili, degli sparuti pedoni e dei pochi ciclisti che come me lo affrontavano scalandolo.

È proprio la salita, il punto. Tutto sommato non sono mai stato in difficoltà di fronte alle salite. Ero o non ero un ciclista “di fondo”, uno che non aveva la potenza e lo scatto per la volata, ma che si piazzava bene “sul lungo” e in montagna? Testa bassa e pedalare: era fisico (il torso magro e stretto, le ossa leggere) ma anche mentale, perché soverchiavo chi non sapeva aspettare e ne raccoglievo i frutti in cima, o giù a valle. Dopo quella BMX cromata con le gomme blu, le bici su cui sfrecciavo da ragazzo erano tutte dotate di cambio, e saperlo dosare era parte della strategia di arrampicata sui pedali.
La Galetti nera e “scasciata”, come disse un giorno L. su quel viale di Milano, quella bici che piace alle ragazze ed è efficiente come l’artigiano veneto che l’ha assemblata, invece, il cambio non ce l’ha. È una bici da città, e la città è piatta, si sa, e Milano – la prosaica, così fottutamente “reale” Milano nel cui intingolo sono immerso da diec’anni, sempre lamentandomene un po’ ma mai riuscendo del tutto a distaccarmene – è la città più piatta delle piatte, piane città di pianura che conosco. Il ponte di via Stalingrado, allora, bisogna affrontarlo così: con la rincorsa, il corpo piegato, ondeggiante di volta in volta da una parte e dall’altra, per calcare i pedali forte, prima che la salita – quella lunga e sfaticante dal lato della periferia – si faccia troppo pendente, perché sennò, poi, non si riesce a recuperare. E a tornare, quando si viene dal centro, è meglio iniziarla subito dalla curva del semaforo, la rincorsa, che sennò – metti anche ci sia qualche pedone che costringe a rallentare leggermente la falcata – è dura anche lì, arrivare in cima senza metter piede a terra.

Io ci ho provato. Sono tre anni che provo a cambiare, ma il cambio non ce l’ho. Prima ho pensato di cambiare bicicletta, ma ho venduto la mia vecchia prima di comprarne una nuova; anzi, no, ne ho comprate due e tutte e due non andavano bene perché le usavo insieme; decidetelo voi: ora, questo, importa relativamente. Poi sono ritornato a quella vecchia, e ho registrato catena e corone, perni e bulloni, ma niente. Mille piccole finiture non fanno un cambio che non c’è.

È da allora, che – anche se il dottorato l’ho finito; anche se non sono più a Bologna e forse non mi manca troppo, perché qui ho tutto; anche se continuo ad oliare e a limare e a registrare, e la Galetti va sempre come deve andare – sono così, viaggio così, vivo così.

Senza cambio ponte Stalingrado.

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