Written probably some day of June 2009, somewhere
Edited March 27, 2010 God knows where
O Dio, trovarmi di nuovo in questa situazione, di totale annullamento di me, sciogliermi dentro qualcosa che non è il sé, una birra, una città, dei suoni.
Seguire quello che mi passa per la mente adesso, senza nessuna apparente connessione, né razionalità, o logica. Dio santo, dev’essere Bologna, dev’essere qualcosa nell’aria o solo il tempo che è cambiato, la brezza che ha incominciato a battere i lembi di pianura da stamattina, inturgidendo leggermente i miei pori, e probabilmente anche quelli delle persone, sparute, che ho incontrato sulla strada verso la stazione.
Da quanto non provavo quella sensazione? Aspetta, quale sensazione? Forse non da molto, dopotutto non è successo niente di che, solo un fremito, un paio di movimenti, un cenno col capo di qualcuno, forse di Gionata, o forse di Roxanne, Roxanne – Dio, che cos’ha Roxanne questi giorni? Ma che dico questi giorni, da mesi a questa parte, forse da quando la conosco, quel misto di rossore, pudicizia e istinto che sale dalle viscere, non è bella Roxanne, Dio no, non sei bella Ro, ma, ma hai qualcosa, il susseguirsi di movimenti rapidissimi delle pupille, ma non come le altre, non le muovi su e giù nervosamente, come per inquadrare, inquadrare qualcosa che non riesci a spiegarti (di solito è questo l’effetto che faccio alle donne che conosco, non riescono a inquadrare il mio viso irregolare), no, sembri tenerle fisse quelle pupille, colore scorza di nocciola, scure come la corteccia, il nero centrale quasi a confondersi, e c’è dell’altro, ma non riesco ad afferrarlo, Dio, non so cos’è – insomma probabilmente meno d’un batter d’ali di farfalla, sul tavolaccio alla trattoria, ma c’è stata una sintonia, qualcosa che ci univa, e che – così – non provavo da tempo.
Aspetta, che sto dicendo, così non l’ho mai provato.
Ma sì, dev’esser l’aria quasi fredda che ha invaso i vicoli del centro, la luce che si protrae solo nelle migliori giornate di fine giugno, così a lungo, probabilmente qualche volto incrociato per strada – e che come nelle puntate di Colombo in cui si parla di pubblicità subliminale, Dio, che ingenue – ti lascia qualcosa addosso, senza che tu lo capisca subito, né capisca cos è.
Dicevo, l’annullamento di sé, non capisco se è perché mi odio o quella solita storia vecchia come il mondo che dice “vorrei essere un altro”, una storia sconosciuta peraltro, fino a un po’ fa, ma ora ben nota, vicina, quasi l’avessi scritta io, come incisa su una pietra con gli strumenti dello scultore. Essere qui ma voler essere da un’altra parte. No, non è quel desiderio di impossibile raggiungimento di un ideale che non c’è, che non saremo mai, no, Dio santo, basterebbe lo spazio occupato a fianco, con le belle more ricciolute sedute sulla ringhiera a spiluccare una pizza, o al locale friulano all’angolo, che mi sa tanto stia ospitando qualche musicista jazz, ma non distinguo, non distinguo più i suoni né i colori, potrebbero provenire tutti dalla stessa fonte e da mille diverse, e soprattutto non m’importa – sì, la prendo come una vittoria – non m’importa nulla di sapere che sono, né da dove vengono, né chi li ha inventati, né perché. È una domanda che andrebbe eliminata, “perché?”, anzi, una parola, eliminare la parola, Dio, se fosse in mio potere agire sul linguaggio, su ciò che di più sedimentato – eppure di diverso, e di vario – hanno gli uomini, di intoccabile, che nessuno pensano avergli consegnato se non la Storia, o Dio in persona, come un cavaliere biondo dall’armatura specchiata con una spada luccicante, che dona al Primo degli Uomini affinché egli favelli, e così tutti i suoi consimili. Andrebbe eliminata, almeno come domanda, non so, lasciamola libera di esistere solo in – poche, accurate, selezionate mio Dio – risposte, cioè affermazioni, ma senza quell’insulso, fastidioso, assillante premerci addosso al cuore – sto soffocando – sempre quella stessa, dannata e maleodorante parola – perché?
Non c’è nessun perché, c’è solo un come. Esistono disposizioni d’essere, non dispositivi. Disporre dovrebbe essere un verbo libero, franco. Nessuno istituisce la causa di qualcosa, perché le cause non esistono. Niente è causato da nessun’altra cosa, cioè da un altro niente. Esiste e basta. Ogni niente esiste di per se stesso e solo di per se stesso, non in virtù di qualcos’altro, chiunque sia questo qualcos’altro che pretende di avere a che pretendere qualcosa su quel primo niente. Ma con quale diritto? Con che arroganza?
Dev’essere decisamente la brezza che, oramai sera fatta, sembra quasi penetrare il vetro a doppia camera dell’edificio. È come se la sentissi, che dico come se – als ob, diceva un mio vecchio zio –, io la sento. Anzi, dirò di più, non solo non ci sono separazioni fisiche (fisiche? Cos’è questa parola? Che significa? “Di natura?” Cos’è questa cosa chiamata natura, che pretende di essere riconosciuta da esseri che non possono, non hanno la facoltà – e tanto meno il diritto – di riconoscere alcunché?) tra me e la brezza, perché la brezza è in me anche se c’è uno spesso vetro in mezzo, ma non esistono le sensazioni, o meglio, non c’è nessun dato esterno di natura che deve essere sentito da nessun animale con terminazioni nervose e complessi neuronali che le organizzano, assolutamente no, ragazzi, ci hanno raccontato delle gran fandonie, niente di tutto questo è reale, anzi reale non è niente di tutto questo, e soprattutto non significa niente. Reale dovrebbe coincidere con esistente? E chi gli ha fatto questo favore, al “reale”, di concedergli un che di così nobile come l’esistenza? Ma che ne sa lui? Io sento la brezza, eppure non è reale direte voi, ma che cosa conta davvero? Il reale o la brezza che sento? Mentre non so nulla di questa cosa che si chiama “reale”, so tutto della brezza, perché è in me e mi ha accarezzato prima. Ma soprattutto, per quelli di voi che pensano che quindi la brezza è perché la sento, cioè è una sensazione, no, cari miei, essa è perché io la istituisco, qui e ora, su questo foglio di carta, o su questo insieme di byte, o su quello che cazzo è.
È quasi interamente passato, Dio, è durato poco, un momento veramente fugace, sta finendo, maledizione, come tutte le cose quando si inizia a divertirsi. Non posso pensare che siano state le due dita di vino. Dio non l’avrebbe permesso. L’annullamento del sé, dicevamo. Non c’entra assolutamente nulla con tutte quelle cazzate tipo “mi voglio suicidare, mi voglio annichilire con della droga”, tutte puttanate che penserebbero solo dei pervertiti del pensiero come voi, che mi state leggendo. L’annullamento del sé è una cosa bella, dovreste pregare perché vi succeda una volta, non ho praticamente mai assunto una droga in vita mia – ma poi che ne sapete, voi, di cos’è la droga, che ne sapete di quando la mente fa davvero dei brutti scherzi –, quando avviene desidereresti essere quell’altra cosa che stai pensando, ma davvero, e questo è bellissimo, perché nessuno che abbia un minimo di sale in zucca vorrebbe rimanere per più di due soli secondi in quello che è, non ci guadagni niente, hai solo che da perderci.
Dev’essere il ritorno a Bologna dopo molto tempo. Un cenno di Roxanne. No, nessun cenno, solo il suo sguardo. Unito ovviamente ai mille miei. Non è niente che si possa descrivere come amore o attrazione sessuale tutto questo. Amore, Dio santo, mai sentito un concetto più banale. Chiunque l’abbia inventato, non è che fosse in gran forma quel giorno, eh? È l’insieme delle cose che mi ha provocato questa reazione. La sensazione di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato completa il quadro, facendolo diventare semplicemente perfetto. Qualcuno parla al microfono del centro. Non ha la più pallida idea che questo condisce con un tocco mirabile la perfezione di questo momento. Spero si renda conto della sua pusillanimità assoluta quando la sua esistenza qui ed ora non venga interamente spiegata dal servirmi come addobbo inutile e scarno del mio quadro di perfezione. Al di fuori di questo, è ovviamente una nullità. Ho mandato una mail con un punto alla fine della frase, iniziata in minuscolo, e un punto a capo.
Questa è la cosa migliore che ho fatto nella mia vita.
if I had time...
Cultura, economia & racconti di vita.
lunedì 20 maggio 2024
sabato 10 febbraio 2024
The Bologna files / 1
Written probably during 2009 in Udine
Edited Sep 3, 2010 in Milan
Desidererei parlare ancora per ore, seduto s’un trespolo sotto a un nido di paglia o di legno, che è lo stesso. Parlare con te di che cosa intendi tu per nodi, concetti, costrutti e altri ammenicoli che la maggior parte delle persone, là fuori – non si sentono per niente, lo ricordavo meno silenzioso questo rifugio per merli e altri uccelli spauriti – non solo non sa cosa siano, ma nemmeno – e questo è fondamentale – vorrebbe né saprebbe saperlo. Che cos’è per te questa cosa che stiamo facendo come fatui vagabondi pazzi alla ricerca di un qualcosa che non c’è, ma che vorremmo ci fosse (a tal punto che dobbiamo costruircela, che è l’atto più malsano che conosca); che cosa se non quello che di più sensato c’è è cercare qualcosa che in sostanza non c’è; che cosa potremmo mai fare noi – a parte mordere dolci orpelli fatti per essere ingeriti aiutandoci con stecchini di legno come se avessimo becchi; e strofinarci le piume ogni tanto badando bene alle nostre rispettive leggerezze – se non questa cosa che è quanto di più sensato per noi e parallelamente e specularmente e perfettamente, letteralmente quanto di più insensato per tutti gli altri, tutti gli altri tutti meno due, che ci passano sotto distrattamente o quasi in una via dal nome essoterico, per il mio sentimento verso di te. Ci penso adesso. Abiti a un civico che è anche un numero primo. I numeri primi rischiano prepotentemente d’essere l’unica cosa plausibilmente affascinante dell’intera teoria matematica sì come è stata elaborata da sempre in Mesopotamia ai nostri caldi giorni in cui fuori è freddo e si respira ancora aria di neve in una Bologna che continua a stupirmi per quanto è bella, nonostante i palazzacci delle ortogonali a via Libia. Parlerei fino a notte di cosa intendi tu per quelle cose lì applicate alla cosa che stai facendo e quanti ancora discorsi faremo che non siano altro che picchiettare amore, e piroettare su zampe come di merli strani, ma pur sempre neri, che ritroverò a rincorrersi al mio ritorno nella casa con giardino in quell’altra città così strana, da quanto è bella. Fino a notte ma è ancora giorno. L’eclissarsi della luce in rapporto alle stagioni non mi ha mai aiutato così poco quanto in questo giorno in cui spero che tu non giunga mai a dirmi quella specie di frase che usano gli (sperabilmente altri) umani per fare una cosa che solo i militari potevano far loro in quanto gergo tecnico. Congedarsi. Infatti ti precedo perché non potrei sopportarlo, da te. Ti saluto io. Ti saluto e non ti saluto, pronuncio quelle interiezioni che servono solo ad armeggiare un altro po’ con il proprio cuore, facendolo balzare come pallone per un bambino non ancora corrotto dalla scoperta che rimbalza. Persino ballonzolare. Mi piace pensare adesso che sia un lanciarti il mio perché tu lo tenga, massaggiandolo, un po’ nelle tue mani, e non ha la consistenza proprio di quel cuore che vorrebbero venderci alla pubblicità, rosso e gommoso come delle caramelle mou di cui non ricordo il nome (e grande), ma nemmeno quella succosa fetidità di un fegato vero o umano, grondante. È qualcosa che si può tenere in mani altrui, ma non troppo, che sennò fa male. E così cerco di scendere dagli scalini uno a uno iniziando sempre dal piede destro. E la tagliente aria di ospedale fuori non mi fa così male. Il tuo semplice essere per me sì.
Edited Sep 3, 2010 in Milan
Desidererei parlare ancora per ore, seduto s’un trespolo sotto a un nido di paglia o di legno, che è lo stesso. Parlare con te di che cosa intendi tu per nodi, concetti, costrutti e altri ammenicoli che la maggior parte delle persone, là fuori – non si sentono per niente, lo ricordavo meno silenzioso questo rifugio per merli e altri uccelli spauriti – non solo non sa cosa siano, ma nemmeno – e questo è fondamentale – vorrebbe né saprebbe saperlo. Che cos’è per te questa cosa che stiamo facendo come fatui vagabondi pazzi alla ricerca di un qualcosa che non c’è, ma che vorremmo ci fosse (a tal punto che dobbiamo costruircela, che è l’atto più malsano che conosca); che cosa se non quello che di più sensato c’è è cercare qualcosa che in sostanza non c’è; che cosa potremmo mai fare noi – a parte mordere dolci orpelli fatti per essere ingeriti aiutandoci con stecchini di legno come se avessimo becchi; e strofinarci le piume ogni tanto badando bene alle nostre rispettive leggerezze – se non questa cosa che è quanto di più sensato per noi e parallelamente e specularmente e perfettamente, letteralmente quanto di più insensato per tutti gli altri, tutti gli altri tutti meno due, che ci passano sotto distrattamente o quasi in una via dal nome essoterico, per il mio sentimento verso di te. Ci penso adesso. Abiti a un civico che è anche un numero primo. I numeri primi rischiano prepotentemente d’essere l’unica cosa plausibilmente affascinante dell’intera teoria matematica sì come è stata elaborata da sempre in Mesopotamia ai nostri caldi giorni in cui fuori è freddo e si respira ancora aria di neve in una Bologna che continua a stupirmi per quanto è bella, nonostante i palazzacci delle ortogonali a via Libia. Parlerei fino a notte di cosa intendi tu per quelle cose lì applicate alla cosa che stai facendo e quanti ancora discorsi faremo che non siano altro che picchiettare amore, e piroettare su zampe come di merli strani, ma pur sempre neri, che ritroverò a rincorrersi al mio ritorno nella casa con giardino in quell’altra città così strana, da quanto è bella. Fino a notte ma è ancora giorno. L’eclissarsi della luce in rapporto alle stagioni non mi ha mai aiutato così poco quanto in questo giorno in cui spero che tu non giunga mai a dirmi quella specie di frase che usano gli (sperabilmente altri) umani per fare una cosa che solo i militari potevano far loro in quanto gergo tecnico. Congedarsi. Infatti ti precedo perché non potrei sopportarlo, da te. Ti saluto io. Ti saluto e non ti saluto, pronuncio quelle interiezioni che servono solo ad armeggiare un altro po’ con il proprio cuore, facendolo balzare come pallone per un bambino non ancora corrotto dalla scoperta che rimbalza. Persino ballonzolare. Mi piace pensare adesso che sia un lanciarti il mio perché tu lo tenga, massaggiandolo, un po’ nelle tue mani, e non ha la consistenza proprio di quel cuore che vorrebbero venderci alla pubblicità, rosso e gommoso come delle caramelle mou di cui non ricordo il nome (e grande), ma nemmeno quella succosa fetidità di un fegato vero o umano, grondante. È qualcosa che si può tenere in mani altrui, ma non troppo, che sennò fa male. E così cerco di scendere dagli scalini uno a uno iniziando sempre dal piede destro. E la tagliente aria di ospedale fuori non mi fa così male. Il tuo semplice essere per me sì.
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Quale Venezia sei?
Written Feb 13, 2013 in Milan
Edited Jul 25, 2015 in Crema
Che donna sei, Venezia?
Di tutte le città possiamo dire che donna sono: Udine, ad esempio, per me è mamma, e amata anche quando mi fa arrabbiare, quando non sopporto qualcosa di lei che ne fa parte, la intesse, e che io ho rifiutato. (Per inciso, Udine è bella, bella come una mamma bella, com’è veramente mia mamma). Milano… Milano è difficile, ineffabile; potrebbe esser vista, nei momenti peggiori, come una donna vicina che si ama e si odia insieme, attraente ma inarrivabile, forse subdola e addirittura infedele, ma dalla quale si finisce per ritornare senza sapere bene il perché. Bologna… Bologna è bellissima, è la donna più affascinante che avete conosciuto – vi sarà capitato, almeno una volta, di rimanere attoniti, folgorati dalla bellezza di una donna che vi toglie il respiro: che emana un’aura di magia quando la incontrate, ve la fa rincontrare quando non ve l’aspettereste, vi risolleva quando eravate inginocchiati e vi fa venir voglia di andare a rincorrerla alla fermata dell’autobus prima che sia troppo tardi, invece di correre a casa con la vostra stupida bicicletta. (Un giorno ho preso la tangenziale di Bologna in direzione opposta a quella desiderata: non chiedetemi come sia stato possibile che io abbia raggiunto la mia uscita, senza compiere un intero giro).
E tu chi sei, Venezia?
Tanto per cominciare, Sei Venezia, per citare il titolo di libro-dvd di Carlo Mazzacurati. Tiziano Scarpa, in un libro che ho scoperto dopo aver abbozzato un mio racconto intitolato allo stesso modo (Venezia è un pesce), chiude riportando le visioni di tre tipi possibili di “uomini di Venezia”: il turista straniero, il nativo emigrato e lo straniero trasferito a Venezia. Forse mi posso permettere di aggiungerne un’altra, la mia: il friulano girovago – un essere strano che viene dalla terraferma, si stupisce, bambino, di abitare vicino a una tale meraviglia lagunare, diventando grande se ne dimentica, e a un certo punto la riscopre. Così è successo a me: dopo le gite con la scuola, le domeniche con la famiglia alle mostre, qualche estate con la zia al Lido, solo una visita a Ca’ Foscari prima di iniziare l’università (altrove): poi più niente.
Tra l’inverno e la primavera dell’anno scorso, ho passato credo il momento più critico di tutta la mia vita: e non starò qui a raccontare il perché. Racconterò solo del colloquio all’ex-macello di San Giobbe, in un’aula affacciata sulla laguna da cui il sole terso di febbraio trapelava incurante delle veneziane, di qualche sguardo colto qua e là di ragazzi sereni, del Carnevale che impazzava nei sestieri più vivaci, e delle mamme travestite come le bambine sul regionale che mi avrebbe portato a Mestre.
Il reincontro con Venezia è, quasi da subito, donna: la ragazza in jeans con gli occhi azzurri a cui mi siedo vicino aspettando il mio turno; la milanese incinta di otto mesi; la professoressa che mi chiamerà il giorno dopo, affabile. Non vinco il concorso, ma piaccio e capisco che il prossimo sarà mio.
Mi presento, poche settimane dopo, nel complesso restaurato che guarda la terraferma e la rotta di atterraggio all’aeroporto Marco Polo, con una giornata di sole non così deciso, ma incoraggiante per chiunque non stesse affrontando uno dei momenti più bui della propria depressione. Arrivo in anticipo. Incontro sulla fondamenta il professore: non so interpretare le sue caute aperture e le sue mani avanti. Chiamo un paio di persone amiche mentre aspetto; una ragazza sale le scale del plesso senza togliersi gli occhiali da sole. Quando ci incontriamo vicino all’aula, l’impatto è classicamente timido. Ci fanno aspettare parecchio, temporeggiano facendoci entrare nell’aula. Conosco il suo nome per averlo letto nei documenti online; ma lo sbaglio rivolgendomi a lei, e questo rende tutto più facile. Quella vaga altezzosità da studentessa di cinema tutta racchiusa negli occhiali da sole e nel fare un po’ distante, sfogliando il quaderno, pochi istanti prima, si scioglie in un sorriso largo, bellissimo. Con mia immane sorpresa, a parte qualche momento di fatica, svolgo il colloquio con animo quasi disteso. Tra il prima e il dopo – andremo a prendere un caffè in fondamenta, e faremo il giro lungo per tornare in stazione, passando dal ponte delle Guglie come m’insegna – passerò con lei non più di una quarantina di minuti totali: ci diciamo più cose di noi di quelle che mi scambio con amici di lunga data in mesi di frequentazione. Fabiola – mi piace chiamarla con il falso nome che le avevo appioppato allora – è la prima persona che mi parla della tua forma di pesce.
Ma il libro di Tiziano Scarpa, che mi ruba retroattivamente il titolo di quel racconto, me lo presta la ragazza dagli occhi azzurri del primo colloquio. Succede quando, mesi più tardi, ho bisogno di dormire in zona e approfitto dei suoi inviti a stare in quella strana Venezia di terraferma, quella Vicenza palladiana che avevo immaginato forse più simile a Udine di quanto mi si riveli, nella breve sera post-lavorativa che il freddo morde, nel tragitto tra vescovado e Basilica. Scorgo il dorso di un libro con quel titolo, tra i tanti che Laura ha sistemato in quella piccola perla che ha per casa, e me lo faccio prestare qualche settimana dopo, trattenendomi dal chiederglielo subito per paura della mia stessa impazienza.
Quando compro Sei Venezia, in una libreria interrata al centro della mia Milano, in un weekend prenatalizio, penso immediatamente a quello che sto scrivendo qui. Mazzacurati presenta sei personaggi: ma l’autore loro l’han già trovato, è sempre Venezia, è Venezia che parla di loro, non il contrario. Mi tormenta per qualche giorno l’idea di regalarlo a una donna, sfruttando l’ambiguità tra il numero e il verbo. Be’, devo ammetterlo: è più facile associare Venezia direttamente alle sue donne che cercare di mutuare immagini femminili definendo la città. Nei miei mesi a Venezia vedrò (tante) e conoscerò (poche), bellissime donne, dall’estro conturbante e dagli abiti drappeggianti, dagli occhiali sfolgoranti e dagli sguardi ammiccanti: sarebbe banale associarle a dame del Settecento; per me sono semplicemente il riflesso della luce di Venezia che impressionava i pittori e di cui ci parlava la professoressa d’arte al liceo, la fioritura sgargiante di un fertile acquitrino, la scrosciante bellezza che può assurgere a norma solo nella città più bella del mondo, nella città in cui – come ci ricorda Scarpa – di bellezza sono morti tanti personaggi letterari, e si può morire veramente.
Per me è così: seduti a un tavolino affacciato sul rio de la Crea, con davanti un caffè che farò fatica ad offrire o un piatto di spaghetti alle vongole; quando la donna che ho di fronte si toglie gli occhiali e c’è il cielo giusto, il verdeacqua oceanico dei suoi occhi sconfina oltre la bellezza del color di canale che ogni tanto mi colpisce, campitura semovente, salmastra, tra il dolce e il salato, rassicurante spennellata di verde cangiante tra gli accecanti bianchi marmorei dei palazzi; quando mi accompagna per percorsi che mai vorrei ricostruire in sua assenza, un giorno di sole anche pallido, il roseo pallore delle guance e del collo provocato non si sa se da un trucco leggero o dai riflessi di luce, sento lungo la schiena il brivido che si prova davanti a una Madonna di Bellini, o di Antonello da Messina; schiviamo la chiesa dei Frari, la Scuola Grande di San Rocco, campi e Palazzi che racchiudono tesori ineguagliati e lo facciamo con la massima naturalezza, la naturalezza che può avere solo chi – come lei – è cresciuto respirando quella bellezza estetica che può uccidere, o solo chi – come me – ha la fortuna di accedere all’unica consolazione, l’unico palliativo, l’unico possibile sostituto a una bellezza delle cose sfolgorante, incompresa o eccessiva: una bella donna.
Cammino con Venezia – pardon, con Laura, che è lo stesso – e mi capita di chiedermi continuamente: glielo dico o non glielo dico, che la trovo bellissima? Mi sembra di mordermi le labbra da quanto vorrei dirglielo; nemmeno il rendermi conto che non è bionda come sembrava il giorno che sedemmo accanto, o la difficoltà di inquadrare in una tavolozza il colore preciso dei suoi capelli talora arruffati, mi distoglie dal notare quanto la mia visione di lei si integri con quella della città, a tal punto da far fatica a distinguerle, certe volte: oggi cos’è che mi risalta di più, il colore dei suoi occhi o la morbidezza del colonnato del cortile di San Sebastiano? Al Ghetto cos’è stato, la superba malinconia del campo semivuoto spazzato dal vento, o i suoi capelli accarezzati dallo stesso vento, più clemente, in fondamenta? Venezia potrebbe essere labirintica e oscura, e in quanto tale nemica e pericolosa: ma allora perché ogni volta che mi perdo Venezia corre in mio aiuto, e se non siamo insieme la chiamo, e Laura assume le forme di un’indicazione sbiadita per la ferrovia, il suono della sua voce risponde mirabilmente alle mie sollecitazioni di turista smarrito, anticipandole; l’etereo fantasma di lei che aveva svoltato in calle e salito il ponticello quella volta mi appare, i contorni sgranati, come pulviscolo, indicandomi la via?
Venezia è una voglia di fuga irrefrenabile, è un vaporetto che ti lascia a un attracco silenzioso; è un professore che non ti chiama, lasciandoti libero di sapere che potresti andare a Murano oggi, invece che in ufficio; è una panchina smangiata sul dorso del pesce, che si affaccia sulla piena laguna in un giorno d’inverno che a Venezia è quasi sempre come autunno perché non ferisce mai, scheggia ma non penetra, graffia ma non taglia: ti lascia stare in piedi sul ponte di coperta, facendoti bastare una sciarpa e una giacca doppiopetto; è un nonno veneziano che parla in inglese a sua nipote, una mamma australiana, i piccoli con la zia vergognosa che salutano il papà, da barca a barca; sono gli occhi di Laura quando si addolciscono stringendosi, come se volessero toccarsi, appena sente parlare di qualcosa che la commuove, e tu sprofondi in quel mare di tenerezza che avvolge tutto come l’acqua di Venezia; sono i pasticcini dei rinfreschi, la durezza delle vecchie sedie in legno, gli uffici delle sedi cadenti con gli affreschi di Tiepolo; Venezia è un tramezzino, Venezia è un pesce; Venezia è una cura, Venezia è un po’ una malattia; Venezia è la più bella e irreale donna che tu abbia visto, solo che la conosci; Venezia fa il contrario delle altre città e delle altre donne: sembra tradirti ma non lo fa, dovrebbe invecchiare ma diventa più bella, dovresti andartene ma non vorresti; Venezia è gli innamorati che litigano urlando davanti alla facciata della stazione, è il bambino francese che ti vuole parlare, educato, seduto a una fontana in campo Santo Stefano; è i ragazzi di Castello, sei tu da bambino; è il lucore spiazzante del bianco della chiesa della Salute, e sei di nuovo con la zia a prendere il vaporetto per il Lido; è la segretaria hippie, la prof di economia artistoide, i ragazzi dello Iuav cogli album Fabriano grandi sottobraccio; è la cena che vorresti offrire a Laura, e che hai paura che non sazierebbe te e speri nemmeno lei.
Venezia è tu.
Edited Jul 25, 2015 in Crema
Che donna sei, Venezia?
Di tutte le città possiamo dire che donna sono: Udine, ad esempio, per me è mamma, e amata anche quando mi fa arrabbiare, quando non sopporto qualcosa di lei che ne fa parte, la intesse, e che io ho rifiutato. (Per inciso, Udine è bella, bella come una mamma bella, com’è veramente mia mamma). Milano… Milano è difficile, ineffabile; potrebbe esser vista, nei momenti peggiori, come una donna vicina che si ama e si odia insieme, attraente ma inarrivabile, forse subdola e addirittura infedele, ma dalla quale si finisce per ritornare senza sapere bene il perché. Bologna… Bologna è bellissima, è la donna più affascinante che avete conosciuto – vi sarà capitato, almeno una volta, di rimanere attoniti, folgorati dalla bellezza di una donna che vi toglie il respiro: che emana un’aura di magia quando la incontrate, ve la fa rincontrare quando non ve l’aspettereste, vi risolleva quando eravate inginocchiati e vi fa venir voglia di andare a rincorrerla alla fermata dell’autobus prima che sia troppo tardi, invece di correre a casa con la vostra stupida bicicletta. (Un giorno ho preso la tangenziale di Bologna in direzione opposta a quella desiderata: non chiedetemi come sia stato possibile che io abbia raggiunto la mia uscita, senza compiere un intero giro).
E tu chi sei, Venezia?
Tanto per cominciare, Sei Venezia, per citare il titolo di libro-dvd di Carlo Mazzacurati. Tiziano Scarpa, in un libro che ho scoperto dopo aver abbozzato un mio racconto intitolato allo stesso modo (Venezia è un pesce), chiude riportando le visioni di tre tipi possibili di “uomini di Venezia”: il turista straniero, il nativo emigrato e lo straniero trasferito a Venezia. Forse mi posso permettere di aggiungerne un’altra, la mia: il friulano girovago – un essere strano che viene dalla terraferma, si stupisce, bambino, di abitare vicino a una tale meraviglia lagunare, diventando grande se ne dimentica, e a un certo punto la riscopre. Così è successo a me: dopo le gite con la scuola, le domeniche con la famiglia alle mostre, qualche estate con la zia al Lido, solo una visita a Ca’ Foscari prima di iniziare l’università (altrove): poi più niente.
Tra l’inverno e la primavera dell’anno scorso, ho passato credo il momento più critico di tutta la mia vita: e non starò qui a raccontare il perché. Racconterò solo del colloquio all’ex-macello di San Giobbe, in un’aula affacciata sulla laguna da cui il sole terso di febbraio trapelava incurante delle veneziane, di qualche sguardo colto qua e là di ragazzi sereni, del Carnevale che impazzava nei sestieri più vivaci, e delle mamme travestite come le bambine sul regionale che mi avrebbe portato a Mestre.
Il reincontro con Venezia è, quasi da subito, donna: la ragazza in jeans con gli occhi azzurri a cui mi siedo vicino aspettando il mio turno; la milanese incinta di otto mesi; la professoressa che mi chiamerà il giorno dopo, affabile. Non vinco il concorso, ma piaccio e capisco che il prossimo sarà mio.
Mi presento, poche settimane dopo, nel complesso restaurato che guarda la terraferma e la rotta di atterraggio all’aeroporto Marco Polo, con una giornata di sole non così deciso, ma incoraggiante per chiunque non stesse affrontando uno dei momenti più bui della propria depressione. Arrivo in anticipo. Incontro sulla fondamenta il professore: non so interpretare le sue caute aperture e le sue mani avanti. Chiamo un paio di persone amiche mentre aspetto; una ragazza sale le scale del plesso senza togliersi gli occhiali da sole. Quando ci incontriamo vicino all’aula, l’impatto è classicamente timido. Ci fanno aspettare parecchio, temporeggiano facendoci entrare nell’aula. Conosco il suo nome per averlo letto nei documenti online; ma lo sbaglio rivolgendomi a lei, e questo rende tutto più facile. Quella vaga altezzosità da studentessa di cinema tutta racchiusa negli occhiali da sole e nel fare un po’ distante, sfogliando il quaderno, pochi istanti prima, si scioglie in un sorriso largo, bellissimo. Con mia immane sorpresa, a parte qualche momento di fatica, svolgo il colloquio con animo quasi disteso. Tra il prima e il dopo – andremo a prendere un caffè in fondamenta, e faremo il giro lungo per tornare in stazione, passando dal ponte delle Guglie come m’insegna – passerò con lei non più di una quarantina di minuti totali: ci diciamo più cose di noi di quelle che mi scambio con amici di lunga data in mesi di frequentazione. Fabiola – mi piace chiamarla con il falso nome che le avevo appioppato allora – è la prima persona che mi parla della tua forma di pesce.
Ma il libro di Tiziano Scarpa, che mi ruba retroattivamente il titolo di quel racconto, me lo presta la ragazza dagli occhi azzurri del primo colloquio. Succede quando, mesi più tardi, ho bisogno di dormire in zona e approfitto dei suoi inviti a stare in quella strana Venezia di terraferma, quella Vicenza palladiana che avevo immaginato forse più simile a Udine di quanto mi si riveli, nella breve sera post-lavorativa che il freddo morde, nel tragitto tra vescovado e Basilica. Scorgo il dorso di un libro con quel titolo, tra i tanti che Laura ha sistemato in quella piccola perla che ha per casa, e me lo faccio prestare qualche settimana dopo, trattenendomi dal chiederglielo subito per paura della mia stessa impazienza.
Quando compro Sei Venezia, in una libreria interrata al centro della mia Milano, in un weekend prenatalizio, penso immediatamente a quello che sto scrivendo qui. Mazzacurati presenta sei personaggi: ma l’autore loro l’han già trovato, è sempre Venezia, è Venezia che parla di loro, non il contrario. Mi tormenta per qualche giorno l’idea di regalarlo a una donna, sfruttando l’ambiguità tra il numero e il verbo. Be’, devo ammetterlo: è più facile associare Venezia direttamente alle sue donne che cercare di mutuare immagini femminili definendo la città. Nei miei mesi a Venezia vedrò (tante) e conoscerò (poche), bellissime donne, dall’estro conturbante e dagli abiti drappeggianti, dagli occhiali sfolgoranti e dagli sguardi ammiccanti: sarebbe banale associarle a dame del Settecento; per me sono semplicemente il riflesso della luce di Venezia che impressionava i pittori e di cui ci parlava la professoressa d’arte al liceo, la fioritura sgargiante di un fertile acquitrino, la scrosciante bellezza che può assurgere a norma solo nella città più bella del mondo, nella città in cui – come ci ricorda Scarpa – di bellezza sono morti tanti personaggi letterari, e si può morire veramente.
Per me è così: seduti a un tavolino affacciato sul rio de la Crea, con davanti un caffè che farò fatica ad offrire o un piatto di spaghetti alle vongole; quando la donna che ho di fronte si toglie gli occhiali e c’è il cielo giusto, il verdeacqua oceanico dei suoi occhi sconfina oltre la bellezza del color di canale che ogni tanto mi colpisce, campitura semovente, salmastra, tra il dolce e il salato, rassicurante spennellata di verde cangiante tra gli accecanti bianchi marmorei dei palazzi; quando mi accompagna per percorsi che mai vorrei ricostruire in sua assenza, un giorno di sole anche pallido, il roseo pallore delle guance e del collo provocato non si sa se da un trucco leggero o dai riflessi di luce, sento lungo la schiena il brivido che si prova davanti a una Madonna di Bellini, o di Antonello da Messina; schiviamo la chiesa dei Frari, la Scuola Grande di San Rocco, campi e Palazzi che racchiudono tesori ineguagliati e lo facciamo con la massima naturalezza, la naturalezza che può avere solo chi – come lei – è cresciuto respirando quella bellezza estetica che può uccidere, o solo chi – come me – ha la fortuna di accedere all’unica consolazione, l’unico palliativo, l’unico possibile sostituto a una bellezza delle cose sfolgorante, incompresa o eccessiva: una bella donna.
Cammino con Venezia – pardon, con Laura, che è lo stesso – e mi capita di chiedermi continuamente: glielo dico o non glielo dico, che la trovo bellissima? Mi sembra di mordermi le labbra da quanto vorrei dirglielo; nemmeno il rendermi conto che non è bionda come sembrava il giorno che sedemmo accanto, o la difficoltà di inquadrare in una tavolozza il colore preciso dei suoi capelli talora arruffati, mi distoglie dal notare quanto la mia visione di lei si integri con quella della città, a tal punto da far fatica a distinguerle, certe volte: oggi cos’è che mi risalta di più, il colore dei suoi occhi o la morbidezza del colonnato del cortile di San Sebastiano? Al Ghetto cos’è stato, la superba malinconia del campo semivuoto spazzato dal vento, o i suoi capelli accarezzati dallo stesso vento, più clemente, in fondamenta? Venezia potrebbe essere labirintica e oscura, e in quanto tale nemica e pericolosa: ma allora perché ogni volta che mi perdo Venezia corre in mio aiuto, e se non siamo insieme la chiamo, e Laura assume le forme di un’indicazione sbiadita per la ferrovia, il suono della sua voce risponde mirabilmente alle mie sollecitazioni di turista smarrito, anticipandole; l’etereo fantasma di lei che aveva svoltato in calle e salito il ponticello quella volta mi appare, i contorni sgranati, come pulviscolo, indicandomi la via?
Venezia è una voglia di fuga irrefrenabile, è un vaporetto che ti lascia a un attracco silenzioso; è un professore che non ti chiama, lasciandoti libero di sapere che potresti andare a Murano oggi, invece che in ufficio; è una panchina smangiata sul dorso del pesce, che si affaccia sulla piena laguna in un giorno d’inverno che a Venezia è quasi sempre come autunno perché non ferisce mai, scheggia ma non penetra, graffia ma non taglia: ti lascia stare in piedi sul ponte di coperta, facendoti bastare una sciarpa e una giacca doppiopetto; è un nonno veneziano che parla in inglese a sua nipote, una mamma australiana, i piccoli con la zia vergognosa che salutano il papà, da barca a barca; sono gli occhi di Laura quando si addolciscono stringendosi, come se volessero toccarsi, appena sente parlare di qualcosa che la commuove, e tu sprofondi in quel mare di tenerezza che avvolge tutto come l’acqua di Venezia; sono i pasticcini dei rinfreschi, la durezza delle vecchie sedie in legno, gli uffici delle sedi cadenti con gli affreschi di Tiepolo; Venezia è un tramezzino, Venezia è un pesce; Venezia è una cura, Venezia è un po’ una malattia; Venezia è la più bella e irreale donna che tu abbia visto, solo che la conosci; Venezia fa il contrario delle altre città e delle altre donne: sembra tradirti ma non lo fa, dovrebbe invecchiare ma diventa più bella, dovresti andartene ma non vorresti; Venezia è gli innamorati che litigano urlando davanti alla facciata della stazione, è il bambino francese che ti vuole parlare, educato, seduto a una fontana in campo Santo Stefano; è i ragazzi di Castello, sei tu da bambino; è il lucore spiazzante del bianco della chiesa della Salute, e sei di nuovo con la zia a prendere il vaporetto per il Lido; è la segretaria hippie, la prof di economia artistoide, i ragazzi dello Iuav cogli album Fabriano grandi sottobraccio; è la cena che vorresti offrire a Laura, e che hai paura che non sazierebbe te e speri nemmeno lei.
Venezia è tu.
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Venezia
lunedì 17 settembre 2012
Laguna metropolitana.
Written Sep 17, 2012 in Venezia
Adoro Venezia. A parte che l’ho sempre adorata, è l’unica città che mantiene le sue promesse, le tue aspettative. Non l’avevo mai vissuta, ma sapevo che sarebbe stato così.
Posso spiare tra le tende della casa di fronte, più invasivo e allo stesso tempo più discreto; meno morboso, ma più appagato dal sottile piacere voyeuristico di quanto potrei fare a Milano, dove le case si guardano più o meno alla stessa distanza, ma con una strada di mezzo. Qui, invece, osservo di sotto e scopro una piacevole ipnosi nella sensata irregolarità delle pietre della calle. Sono passate da poco le dieci, e le scene che osservo sono: una mora che sistema qualcosa in un armadio, le luci delle scale del bel palazzo ristrutturato, una signora bionda che continua ad essere bella mentre porta giù un cagnolino. La seguo con la mente, più che con lo sguardo: e puntuale arriva lo schiocco della serratura del cancello, sotto. Una porta si apre, e mi riaffaccio a guardarla mentre prende a camminare tranquilla verso campo S.. Il silenzio – un silenzio morbidamente avvolto da un navigare lontano di tante barche che sembrano una – è in realtà costellato di suoni vicini, di vita veneziana. I miei compagni di casa, le cui inflessioni nasali mi precipitano in un luogo sempre vicino, eppure mai scoperto: le loro risate aperte, spontanee, sono tutto sommato un toccasana per la mia serietà congenita peggiorata dai miei acciacchi recenti. Voci, per lo più; del resto la vita dovrebbe essere fatta di voci e di carni, nulla più – in esse c’è tutto quanto può servire, e i veneziani lo sanno: gliel’ha insegnato la loro città. Un clacson di nave, breve. Ora, un fischio, amico.
Quello che non c’è non va nemmeno menzionato, in un post su Venezia: non c’è, non serve.
La mia prima impressione sulla casa: ci credo che costa poco… saranno tutte così? Ora, pochi giorni dopo, ho la risposta: a Venezia non serve di più. Non servono doppi vetri, non serve un box doccia, né un lavello che non abbia le formiche; non serve l’aria condizionata, e nemmeno la porta blindata: i miei coinquilini aprono la porta ogni mattina a uno sconosciuto suonatore di campanello, che m’immagino sempre diverso. Lui suona, loro gli aprono: uno si alza e va fino al citofono, senza chiedere chi è; calca un tasto per il portone di sotto, lascia la porta di casa socchiusa, e torna a letto. Faccio colazione da solo, stranito. Richiudo la porta, ancora socchiusa, più tardi, quando esco.
Stamattina ho fatto la vedetta sul ponte di coperta, per tutto il tragitto. La brezza ti sferza solo in crociera, tra un approdo e l’altro. Vedo la mia immagine riflessa sui vetri delle banchine, ad ogni attracco. Ancora un po’ di schiuma e si ferma.
Ieri sera tre marinai maschi e uno femmina, passeggiando nella calle qui sotto, candidi.
Faccio il ricercatore e ogni giorno vado a lavorare in vaporetto.
Adoro Venezia. A parte che l’ho sempre adorata, è l’unica città che mantiene le sue promesse, le tue aspettative. Non l’avevo mai vissuta, ma sapevo che sarebbe stato così.
Posso spiare tra le tende della casa di fronte, più invasivo e allo stesso tempo più discreto; meno morboso, ma più appagato dal sottile piacere voyeuristico di quanto potrei fare a Milano, dove le case si guardano più o meno alla stessa distanza, ma con una strada di mezzo. Qui, invece, osservo di sotto e scopro una piacevole ipnosi nella sensata irregolarità delle pietre della calle. Sono passate da poco le dieci, e le scene che osservo sono: una mora che sistema qualcosa in un armadio, le luci delle scale del bel palazzo ristrutturato, una signora bionda che continua ad essere bella mentre porta giù un cagnolino. La seguo con la mente, più che con lo sguardo: e puntuale arriva lo schiocco della serratura del cancello, sotto. Una porta si apre, e mi riaffaccio a guardarla mentre prende a camminare tranquilla verso campo S.. Il silenzio – un silenzio morbidamente avvolto da un navigare lontano di tante barche che sembrano una – è in realtà costellato di suoni vicini, di vita veneziana. I miei compagni di casa, le cui inflessioni nasali mi precipitano in un luogo sempre vicino, eppure mai scoperto: le loro risate aperte, spontanee, sono tutto sommato un toccasana per la mia serietà congenita peggiorata dai miei acciacchi recenti. Voci, per lo più; del resto la vita dovrebbe essere fatta di voci e di carni, nulla più – in esse c’è tutto quanto può servire, e i veneziani lo sanno: gliel’ha insegnato la loro città. Un clacson di nave, breve. Ora, un fischio, amico.
Quello che non c’è non va nemmeno menzionato, in un post su Venezia: non c’è, non serve.
La mia prima impressione sulla casa: ci credo che costa poco… saranno tutte così? Ora, pochi giorni dopo, ho la risposta: a Venezia non serve di più. Non servono doppi vetri, non serve un box doccia, né un lavello che non abbia le formiche; non serve l’aria condizionata, e nemmeno la porta blindata: i miei coinquilini aprono la porta ogni mattina a uno sconosciuto suonatore di campanello, che m’immagino sempre diverso. Lui suona, loro gli aprono: uno si alza e va fino al citofono, senza chiedere chi è; calca un tasto per il portone di sotto, lascia la porta di casa socchiusa, e torna a letto. Faccio colazione da solo, stranito. Richiudo la porta, ancora socchiusa, più tardi, quando esco.
Stamattina ho fatto la vedetta sul ponte di coperta, per tutto il tragitto. La brezza ti sferza solo in crociera, tra un approdo e l’altro. Vedo la mia immagine riflessa sui vetri delle banchine, ad ogni attracco. Ancora un po’ di schiuma e si ferma.
Ieri sera tre marinai maschi e uno femmina, passeggiando nella calle qui sotto, candidi.
Faccio il ricercatore e ogni giorno vado a lavorare in vaporetto.
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martedì 6 settembre 2011
La Cina in testa.
Written Sep 5, 2011 in Milano
Revised Sep 6, 2011 in Milano
Al volgere di un’estate di vacanze che, dato il clima, avrei forse pianificato in senso più spiccatamente montano che marino, mi imbatto (in montagna dove passo proprio gli ultimi giorni) in un libercolo dal titolo e dalla copertina intriganti: Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente (di François Jullien, Laterza, 2006).
Di che si tratta?
Jullien – docente di filosofia all’Università di Paris-VII – analizza il concetto di efficacia così come si è evoluto in Occidente (partendo dalla filosofia greca e facendo ampio ricorso alla letteratura strategica militare) e lo pone a confronto con lo stesso concetto, inteso dalla cultura cinese (anche qui, ricorrendo largamente all’analisi di filosofi e testi della Cina antica, con alcuni, più brevi “salti” ad evoluzioni ed applicazioni più moderne degli stessi nel Continente asiatico).
In Occidente, afferma Jullien, “efficacia” si riferisce al raggiungimento di obiettivi prefissati nel modo più semplice ed economicamente conveniente. (I bocconiani, ad esempio, vengono ideologicamente perseguitati da tale concetto, e dalle nozioni “sorelle” di “efficienza” ed “economicità”, fin dai primi anni del proprio cursus studiorum). L’impianto concettuale alla base di tale costrutto fondamentale si poggia, dalla filosofia greca appunto, sui due pilastri distinti di “piano o progetto” (ideale), e “realizzazione pratica”, “implementazione” (la traduzione in “realtà effettiva” del piano ideale). Efficaci sono quegli uomini e quelle azioni che più si avvicinano a quanto pianificato, e lo fanno servendosi della “strada più breve” o più conveniente.
D’altra parte, in Oriente, Jullien rintraccia nei filosofi “classici” cinesi (Sun Tzu e Confucio tra i più noti) alcuni concetti che vanno a formare un’idea di efficacia assai differente. Tali concetti si richiamano all’idea di sfruttamento “a proprio vantaggio” della posizione in cui ci si trova: efficace è lo stratega che riesce a far “fluire” il corso delle azioni a suo vantaggio, in corso di svolgimento piuttosto che rispetto a una pianificazione predeterminata che vada “realizzata”, cioè a cui si tenti di far aderire la realtà (pur sapendo benissimo che non ci si riuscirà). Ne consegue un atteggiamento nei confronti della realtà che è più di “assecondamento”, di semina e di paziente attesa del momento favorevole, per i Cinesi, che di modifica o “ribaltamento”, come si evince invece nelle grandi narrazioni di matrice occidentale (qui Jullien si richiama ampiamente alle epopee belliche ed eroiche in diverse epoche, come ad esempio in Omero o nel Romanticismo). Corollario di tale distinzione è che, mentre in Occidente, appunto, il grande stratega è un eroe, colui che riesce a imprimere al corso delle cose la direzione desiderata (e vi riesce quanto più essa sia stata accuratamente pianificata), e in quanto tale viene celebrato, in Oriente il grande generale è invece un attore “silenzioso”, e lo è tanto più quanto maggiore è il suo successo: uno sfruttamento “efficace” di una posizione di partenza non è un’azione che crea scalpore, si misura sul lungo periodo e tale abilità è tanto presente quanto meno è eclatante. È evidente come tali considerazioni si estendano all’àmbito di applicazione della strategia che fa riferimento alla guida di grandi organizzazioni manageriali.
Fatto non di poco conto è il notare come, nella nostra modalità di pensare l’efficacia, vi sia sempre uno scarto tra il modello e la realizzazione: la guerra (ma anche la strategia di un’impresa) “non si svolge mai come la si era progettata e preparata” (p. 26), e perciò il modello teorico ha sempre una funzione asintotica, astratta. Clausewitz nota come Napoleone abbia vinto ad Austerlitz sfruttando il favore della nebbia, contro le previsioni della coalizione austriaca; la recente serie I Kennedy ci presentava pochi giorni fa la tormentata decisione, da parte di John Fitzgerald e quindi degli USA, di appoggiare l’invasione di Cuba da parte dei guerriglieri guatemaltechi nell’operazione “Baia dei Porci”, il cui disastroso fallimento viene giustificato così dai generali statunitensi: “non abbiamo previsto la luna piena” (ciascuno si può divertire a setacciare la propria memoria alla ricerca di simili episodi di storia bellica). Sul contrapposto versante orientale, lascio al lettore il piacere di ritrovare interessanti esempi di applicazione della teoria del “fattore portante” e del “potenziale della situazione” (due nozioni associate alla modalità cinese di pensare l'efficacia) ad eventi politici anche moderni negli ultimi capitoletti del testo.
Jullien – si tenga presente che il pamphlet è una trascrizione di lectures “dal vivo” – argomenta con ritmo incalzante e continui esempi la sua tesi principale, oscillando continuamente tra citazioni tratte dai grandi testi della filosofia ma anche dell’epica (e più in generale del pensiero) delle due grandi tradizioni prese in esame, ed esempi di “applicazione diretta della cultura” che sono più immediati, quotidiani (come il ritrovare nelle nostre lingue europee un modo di dire che si richiama alla nostra peculiare concettualizzazione di efficacia); tale modalità argomentativa rende da un lato assai godibile la lettura e la comprensione, dall’altro lascia un po’ spiazzato lo scienziato sociale di formazione (come chi scrive), che ogni tanto langue alla mancanza di un riferimento a un esperimento o a una ricerca sul campo a supporto di quanto affermato.
Ma tornando al cuore del contenuto, allo studioso di management sovviene immediatamente la distinzione tra teorie strategiche della pianificazione “classica” (Andrews negli anni Settanta) e la visione “emergentista” (es. Mintzberg), in cui alla insistente prescrizione di un’adeguata pianificazione (e a un’aspettativa di efficacia della strategia tanto maggiore quanto più essa possa essere e sia pianificata correttamente) delle prime, si contrapponeva un’esame di situazioni in cui la strategia come sequenza logica e coordinata rispetto a un concetto di efficacia emerge, appunto, dall’azione stessa (è celebre la distinzione tra diversi pattern di strategia possibili, quello deliberato, quello emergente, ecc.). (A sua volta, tale distinzione ammicca alla tripartizione positivismo-soggettivismo-processualismo, derivante dalla – peraltro scarna – elaborazione epistemologica nelle teorie organizzative e manageriali prevalenti, e in particolare alla dicotomia tra il primo e il secondo termine, dove quest’ultimo identificherebbe il riconoscimento ex post di un “ordine”, una sequenza logica tra le azioni già messe in campo, e questa razionalizzazione a posteriori costituirebbe la strategia).
Ma forse, piuttosto che ricondurre le suggestioni di Jullien alle teorie manageriali, interessa di più sforzarci di capire quali lezioni potremmo trarre dalla piacevole e ben documentata lecture di François Jullien.
Un primo esercizio in cui la lettura del libro ci potrebbe aiutare è quello di ampliare i nostri orizzonti in termini di “sguardo sulla Cina”: invece che vederla semplicemente come “il continente della concorrenza sleale” e dell’opaca gestione governativa sul piano dei diritti umani e dell’informazione, potrebbe essere utile (per molti) rifocalizzarla come grande custode di una tradizione millenaria di pensiero, autenticamente altra rispetto a quella occidentale e, come tale, portatrice potenziale di una visione nuova e originale anche rispetto alla strategia e ai temi manageriali.
Uno sguardo “altro” non sospettoso sull’Oriente (e potrebbe facilmente esserlo quello di noi occidentali, che approdando in Cina abbiamo pur sempre il vantaggio di essere esposti a qualcosa di non eccessivamente elaborato preventivamente, se non altro per distanza culturale), attraverso la lente del filosofo-esploratore Jullien, può costituire inoltre un proficuo complemento alla comprensione di quella cultura per chi, come me, ha incontrato quel Paese in modo fugace e turistico, per quanto attento e curioso, nelle poche settimane concesse a un viaggio estivo e a qualche racconto di parenti o amici là emigrati. Che cosa ci ha stupito, cosa ha tradito (molto spesso in senso positivo) le nostre aspettative sul comportamento di quel popolo, sul carattere delle persone? Il tema va trattato in altra sede, ma quel che conta qui è che, leggendo Jullien, potremo forse sconfessare alcuni miti reciproci, “liberandoci dell’etnocentrismo culturale … apr[endo] i due pensieri l’uno all’altro … e circolare allegramente attraverso intelligibilità diverse e farle dialogare, in quanto i due diversi pensieri sono egualmente intelligibili (“logici”)” (p. 80).
E, indubbiamente, lo sforzo di aprire anche solo di un poco il vaso di Pandora di una cultura così vasta e millenaria, può servire a ridimensionarci: a relativizzare, cioè, la visione spesso egocentrica che abbiamo di noi in quanto cultura capace di superbe elaborazioni di pensiero e di immani “realizzazioni”. A porci in prospettiva, rispetto al “Grande Altro” da noi, come, parafrasando Jullien, si può definire l’Oriente estremo rispetto ad altre culture più vicine a quella europea e nordamericana dal punto di vista della matrice storica e culturale (vedi Medio Oriente); con le sue forze e le sue debolezze, ma soprattutto a-valutativamente, nelle sue caratteristiche distintive rispetto, appunto, alla nostra.
Per l’Occidente, che assiste ora con preoccupazione all’impressionante ritmo di crescita dell’economia cinese e ai gravi attuali problemi finanziari che attanagliano gli stati dell’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America – a essere messo in discussione, come sempre accade, è anche il modello culturale sottostante – “attrezzarsi a capire” diventa un compito sempre più urgente. Tuttavia, Jullien non manca, nelle ultimissime pagine, di riservare anche all’Oriente la necessità di comprendere l’“altrove distante” rappresentato dal pensiero di origine europea: questo diverrà forse necessario, secondo l’autore, quando il “potenziale favorevole della situazione” di cui la Cina beneficia oggi si esaurirà, e quella cultura dovrà fare i conti con le “questioni del senso”. Che cosa siano queste questioni lo lascio volentieri in sospeso qui: a beneficio del lettore, spero, a questo punto, incuriosito.
Revised Sep 6, 2011 in Milano
Al volgere di un’estate di vacanze che, dato il clima, avrei forse pianificato in senso più spiccatamente montano che marino, mi imbatto (in montagna dove passo proprio gli ultimi giorni) in un libercolo dal titolo e dalla copertina intriganti: Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente (di François Jullien, Laterza, 2006).
Di che si tratta?
Jullien – docente di filosofia all’Università di Paris-VII – analizza il concetto di efficacia così come si è evoluto in Occidente (partendo dalla filosofia greca e facendo ampio ricorso alla letteratura strategica militare) e lo pone a confronto con lo stesso concetto, inteso dalla cultura cinese (anche qui, ricorrendo largamente all’analisi di filosofi e testi della Cina antica, con alcuni, più brevi “salti” ad evoluzioni ed applicazioni più moderne degli stessi nel Continente asiatico).
In Occidente, afferma Jullien, “efficacia” si riferisce al raggiungimento di obiettivi prefissati nel modo più semplice ed economicamente conveniente. (I bocconiani, ad esempio, vengono ideologicamente perseguitati da tale concetto, e dalle nozioni “sorelle” di “efficienza” ed “economicità”, fin dai primi anni del proprio cursus studiorum). L’impianto concettuale alla base di tale costrutto fondamentale si poggia, dalla filosofia greca appunto, sui due pilastri distinti di “piano o progetto” (ideale), e “realizzazione pratica”, “implementazione” (la traduzione in “realtà effettiva” del piano ideale). Efficaci sono quegli uomini e quelle azioni che più si avvicinano a quanto pianificato, e lo fanno servendosi della “strada più breve” o più conveniente.
D’altra parte, in Oriente, Jullien rintraccia nei filosofi “classici” cinesi (Sun Tzu e Confucio tra i più noti) alcuni concetti che vanno a formare un’idea di efficacia assai differente. Tali concetti si richiamano all’idea di sfruttamento “a proprio vantaggio” della posizione in cui ci si trova: efficace è lo stratega che riesce a far “fluire” il corso delle azioni a suo vantaggio, in corso di svolgimento piuttosto che rispetto a una pianificazione predeterminata che vada “realizzata”, cioè a cui si tenti di far aderire la realtà (pur sapendo benissimo che non ci si riuscirà). Ne consegue un atteggiamento nei confronti della realtà che è più di “assecondamento”, di semina e di paziente attesa del momento favorevole, per i Cinesi, che di modifica o “ribaltamento”, come si evince invece nelle grandi narrazioni di matrice occidentale (qui Jullien si richiama ampiamente alle epopee belliche ed eroiche in diverse epoche, come ad esempio in Omero o nel Romanticismo). Corollario di tale distinzione è che, mentre in Occidente, appunto, il grande stratega è un eroe, colui che riesce a imprimere al corso delle cose la direzione desiderata (e vi riesce quanto più essa sia stata accuratamente pianificata), e in quanto tale viene celebrato, in Oriente il grande generale è invece un attore “silenzioso”, e lo è tanto più quanto maggiore è il suo successo: uno sfruttamento “efficace” di una posizione di partenza non è un’azione che crea scalpore, si misura sul lungo periodo e tale abilità è tanto presente quanto meno è eclatante. È evidente come tali considerazioni si estendano all’àmbito di applicazione della strategia che fa riferimento alla guida di grandi organizzazioni manageriali.
Fatto non di poco conto è il notare come, nella nostra modalità di pensare l’efficacia, vi sia sempre uno scarto tra il modello e la realizzazione: la guerra (ma anche la strategia di un’impresa) “non si svolge mai come la si era progettata e preparata” (p. 26), e perciò il modello teorico ha sempre una funzione asintotica, astratta. Clausewitz nota come Napoleone abbia vinto ad Austerlitz sfruttando il favore della nebbia, contro le previsioni della coalizione austriaca; la recente serie I Kennedy ci presentava pochi giorni fa la tormentata decisione, da parte di John Fitzgerald e quindi degli USA, di appoggiare l’invasione di Cuba da parte dei guerriglieri guatemaltechi nell’operazione “Baia dei Porci”, il cui disastroso fallimento viene giustificato così dai generali statunitensi: “non abbiamo previsto la luna piena” (ciascuno si può divertire a setacciare la propria memoria alla ricerca di simili episodi di storia bellica). Sul contrapposto versante orientale, lascio al lettore il piacere di ritrovare interessanti esempi di applicazione della teoria del “fattore portante” e del “potenziale della situazione” (due nozioni associate alla modalità cinese di pensare l'efficacia) ad eventi politici anche moderni negli ultimi capitoletti del testo.
Jullien – si tenga presente che il pamphlet è una trascrizione di lectures “dal vivo” – argomenta con ritmo incalzante e continui esempi la sua tesi principale, oscillando continuamente tra citazioni tratte dai grandi testi della filosofia ma anche dell’epica (e più in generale del pensiero) delle due grandi tradizioni prese in esame, ed esempi di “applicazione diretta della cultura” che sono più immediati, quotidiani (come il ritrovare nelle nostre lingue europee un modo di dire che si richiama alla nostra peculiare concettualizzazione di efficacia); tale modalità argomentativa rende da un lato assai godibile la lettura e la comprensione, dall’altro lascia un po’ spiazzato lo scienziato sociale di formazione (come chi scrive), che ogni tanto langue alla mancanza di un riferimento a un esperimento o a una ricerca sul campo a supporto di quanto affermato.
Ma tornando al cuore del contenuto, allo studioso di management sovviene immediatamente la distinzione tra teorie strategiche della pianificazione “classica” (Andrews negli anni Settanta) e la visione “emergentista” (es. Mintzberg), in cui alla insistente prescrizione di un’adeguata pianificazione (e a un’aspettativa di efficacia della strategia tanto maggiore quanto più essa possa essere e sia pianificata correttamente) delle prime, si contrapponeva un’esame di situazioni in cui la strategia come sequenza logica e coordinata rispetto a un concetto di efficacia emerge, appunto, dall’azione stessa (è celebre la distinzione tra diversi pattern di strategia possibili, quello deliberato, quello emergente, ecc.). (A sua volta, tale distinzione ammicca alla tripartizione positivismo-soggettivismo-processualismo, derivante dalla – peraltro scarna – elaborazione epistemologica nelle teorie organizzative e manageriali prevalenti, e in particolare alla dicotomia tra il primo e il secondo termine, dove quest’ultimo identificherebbe il riconoscimento ex post di un “ordine”, una sequenza logica tra le azioni già messe in campo, e questa razionalizzazione a posteriori costituirebbe la strategia).
Ma forse, piuttosto che ricondurre le suggestioni di Jullien alle teorie manageriali, interessa di più sforzarci di capire quali lezioni potremmo trarre dalla piacevole e ben documentata lecture di François Jullien.
Un primo esercizio in cui la lettura del libro ci potrebbe aiutare è quello di ampliare i nostri orizzonti in termini di “sguardo sulla Cina”: invece che vederla semplicemente come “il continente della concorrenza sleale” e dell’opaca gestione governativa sul piano dei diritti umani e dell’informazione, potrebbe essere utile (per molti) rifocalizzarla come grande custode di una tradizione millenaria di pensiero, autenticamente altra rispetto a quella occidentale e, come tale, portatrice potenziale di una visione nuova e originale anche rispetto alla strategia e ai temi manageriali.
Uno sguardo “altro” non sospettoso sull’Oriente (e potrebbe facilmente esserlo quello di noi occidentali, che approdando in Cina abbiamo pur sempre il vantaggio di essere esposti a qualcosa di non eccessivamente elaborato preventivamente, se non altro per distanza culturale), attraverso la lente del filosofo-esploratore Jullien, può costituire inoltre un proficuo complemento alla comprensione di quella cultura per chi, come me, ha incontrato quel Paese in modo fugace e turistico, per quanto attento e curioso, nelle poche settimane concesse a un viaggio estivo e a qualche racconto di parenti o amici là emigrati. Che cosa ci ha stupito, cosa ha tradito (molto spesso in senso positivo) le nostre aspettative sul comportamento di quel popolo, sul carattere delle persone? Il tema va trattato in altra sede, ma quel che conta qui è che, leggendo Jullien, potremo forse sconfessare alcuni miti reciproci, “liberandoci dell’etnocentrismo culturale … apr[endo] i due pensieri l’uno all’altro … e circolare allegramente attraverso intelligibilità diverse e farle dialogare, in quanto i due diversi pensieri sono egualmente intelligibili (“logici”)” (p. 80).
E, indubbiamente, lo sforzo di aprire anche solo di un poco il vaso di Pandora di una cultura così vasta e millenaria, può servire a ridimensionarci: a relativizzare, cioè, la visione spesso egocentrica che abbiamo di noi in quanto cultura capace di superbe elaborazioni di pensiero e di immani “realizzazioni”. A porci in prospettiva, rispetto al “Grande Altro” da noi, come, parafrasando Jullien, si può definire l’Oriente estremo rispetto ad altre culture più vicine a quella europea e nordamericana dal punto di vista della matrice storica e culturale (vedi Medio Oriente); con le sue forze e le sue debolezze, ma soprattutto a-valutativamente, nelle sue caratteristiche distintive rispetto, appunto, alla nostra.
Per l’Occidente, che assiste ora con preoccupazione all’impressionante ritmo di crescita dell’economia cinese e ai gravi attuali problemi finanziari che attanagliano gli stati dell’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America – a essere messo in discussione, come sempre accade, è anche il modello culturale sottostante – “attrezzarsi a capire” diventa un compito sempre più urgente. Tuttavia, Jullien non manca, nelle ultimissime pagine, di riservare anche all’Oriente la necessità di comprendere l’“altrove distante” rappresentato dal pensiero di origine europea: questo diverrà forse necessario, secondo l’autore, quando il “potenziale favorevole della situazione” di cui la Cina beneficia oggi si esaurirà, e quella cultura dovrà fare i conti con le “questioni del senso”. Che cosa siano queste questioni lo lascio volentieri in sospeso qui: a beneficio del lettore, spero, a questo punto, incuriosito.
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Senza cambio ponte Stalingrado.
Written Sep 1, 2011 in Milano
Revised Sep 6, 2011 in Milano
A Bologna c’è un ponte, un ponte sulla ferrovia. È il ponte di via Stalingrado, e scavalca un dedalo immenso di binari che s’incrociano in una città che delle ferrovie è snodo, e dalle ferrovie è caratteristicamente attraversata in molti dei suoi quartieri. È un ponte alto, dunque, sulla sommità del quale si può anche ammirare una suggestiva skyline: io, ad esempio, la preferisco al tramonto.
Eppure un ponte serve per passarci sopra, non per fermarsi a guardare. Lo faccio in bicicletta per alcuni mesi, da quando ho trasportato la vecchia Galetti artigianale, con cui scorrazzavo (e scorrazzo tuttora) per gli accidentati pavé milanesi, in quel di Bologna, per il mio ultimo periodo lì. Abito in zona Fiera, e per il dipartimento – che senza sorprese si trova in zona universitaria – è la via più breve.
L’impatto col ponte è diverso se si sta andando verso il centro o viceversa: una lunga salita, e (sembra) meno pendente nel primo caso; un “muro”, piuttosto sfidante ma più corto, ad andare a casa. Il servizio strade del comune di Bologna è stato previdente: per gli automobilisti che sfrecciano al lavoro arrivando dalla tangenziale e dalla Fiera, due corsie (a seconda che, giunti alla Porta Mascarella dove il ponte butta nei Viali come un affluente nel corso principale di un fiume, si vada a sinistra e dritti oppure a destra); per chi esce dalla città, una corsia che però si trasforma subito in due appena il lungo declivio comincia a digradare seriamente. A dir la verità, come in molte altre strade di Bologna, non c’è spazio per il marciapiede e la pista ciclable insieme: in questi casi, praticità felsinea vuole che entrambi siano compresi nello stesso spazio, con delle strisce disegnate a segnalarlo. Comunque, questo non cambia la sostanza: il ponte, in bici, va affrontato nel suo manifestarsi essenzialmente come salita, impegnativa da entrambi i punti a valle.
Le discese sono bellissime. Quando vado verso il centro, rimango appena deluso dal sapere che durerà poco; la mia accelerazione progressiva sarà elevata: devo dosare bene i freni e preoccuparmi che i pedoni che incrocio, lenti nelle loro movenze da montanari improvvisati e incedenti a sguardo basso, mi notino e siano consci della mia corsa. Così, preferisco la discesa in direzione opposta: poco sforzo, piuttosto concentrato, a guadagnare il colmo del ponte, e subito l’ampia visuale della discesa che mi si dispiega davanti dà il respiro della montagna appena scalata; e, proprio come in montagna, batte sempre più forte il vento, anche se qui è un’illusione della velocità, un piccolo dono della gravità. Devo solo stare attento a quel tombino (quando, come la maggior parte delle volte, discendo dal lato sinistro del ponte) e all’uscita delle macchine dal complesso sportivo del dopolavoro.
La permanenza in cima dura poco, ma – complice qualche volta in cui sono a piedi – butto sempre un occhio all’orizzonte, specialmente verso la stazione: normale, poiché quello è il lato che faccio più spesso, ed è là che il sole va a buttarsi al crepuscolo: elementare bussola cittadina che mi ricorda, non senza un certo lieve stupore, che i punti cardinali valgono sempre, anche se si è smarriti dentro, e che via Stalingrado è una direttrice Nord della città. Dio sa quante volte ho pensato di portarmi la reflex e di fermarmi a immortalare quella ferraglia sfavillante d’incroci, tale che gli ingegneri ferroviari mi sono sempre sembrati i più intelligenti della categoria. Il fascino di quell’ammasso inestricabile di binari, penso ora, è anche un tardivo riflesso dei miei pensieri sognanti del primo periodo del dottorato, quando via Stalingrado non sapevo nemmeno dov’era – aveva pura entità sonora, facendo solo parte delle curiosità toponomastiche di quella città meravigliosa che mi lamentavo sempre di non riuscire a vivere. Ogni volta che camminavo, lungo la più piana, tipica e porticata via Indipendenza, dal dipartimento alla stazione (soprattutto il venerdì), pensavo sempre che stavo procedendo verso lo snodo baricentrico dell’intero traffico ferroviario italiano, e questo mi dava un senso di libertà (l’ebbrezza di poter andare ovunque, nonostante, di quel nodo, sfruttassi sempre le due solite direttrici Nord-est e Nord-ovest) che ho faticato a ritrovare dopo.
Non ho mai catturato, in forma di foto, il rossore brulicante di quella cartolina in controluce; né i rumori del ponte, che alcune volte ho pensato di fissare sul registratore per interviste: così tipici del veloce traffico automobilistico bolognese, rifratti sui parapetti in pietra dei tratti discendenti del ponte. Porto solo con me le facce, impenetrabili, degli sparuti pedoni e dei pochi ciclisti che come me lo affrontavano scalandolo.
È proprio la salita, il punto. Tutto sommato non sono mai stato in difficoltà di fronte alle salite. Ero o non ero un ciclista “di fondo”, uno che non aveva la potenza e lo scatto per la volata, ma che si piazzava bene “sul lungo” e in montagna? Testa bassa e pedalare: era fisico (il torso magro e stretto, le ossa leggere) ma anche mentale, perché soverchiavo chi non sapeva aspettare e ne raccoglievo i frutti in cima, o giù a valle. Dopo quella BMX cromata con le gomme blu, le bici su cui sfrecciavo da ragazzo erano tutte dotate di cambio, e saperlo dosare era parte della strategia di arrampicata sui pedali.
La Galetti nera e “scasciata”, come disse un giorno L. su quel viale di Milano, quella bici che piace alle ragazze ed è efficiente come l’artigiano veneto che l’ha assemblata, invece, il cambio non ce l’ha. È una bici da città, e la città è piatta, si sa, e Milano – la prosaica, così fottutamente “reale” Milano nel cui intingolo sono immerso da diec’anni, sempre lamentandomene un po’ ma mai riuscendo del tutto a distaccarmene – è la città più piatta delle piatte, piane città di pianura che conosco. Il ponte di via Stalingrado, allora, bisogna affrontarlo così: con la rincorsa, il corpo piegato, ondeggiante di volta in volta da una parte e dall’altra, per calcare i pedali forte, prima che la salita – quella lunga e sfaticante dal lato della periferia – si faccia troppo pendente, perché sennò, poi, non si riesce a recuperare. E a tornare, quando si viene dal centro, è meglio iniziarla subito dalla curva del semaforo, la rincorsa, che sennò – metti anche ci sia qualche pedone che costringe a rallentare leggermente la falcata – è dura anche lì, arrivare in cima senza metter piede a terra.
Io ci ho provato. Sono tre anni che provo a cambiare, ma il cambio non ce l’ho. Prima ho pensato di cambiare bicicletta, ma ho venduto la mia vecchia prima di comprarne una nuova; anzi, no, ne ho comprate due e tutte e due non andavano bene perché le usavo insieme; decidetelo voi: ora, questo, importa relativamente. Poi sono ritornato a quella vecchia, e ho registrato catena e corone, perni e bulloni, ma niente. Mille piccole finiture non fanno un cambio che non c’è.
È da allora, che – anche se il dottorato l’ho finito; anche se non sono più a Bologna e forse non mi manca troppo, perché qui ho tutto; anche se continuo ad oliare e a limare e a registrare, e la Galetti va sempre come deve andare – sono così, viaggio così, vivo così.
Senza cambio ponte Stalingrado.
Revised Sep 6, 2011 in Milano
A Bologna c’è un ponte, un ponte sulla ferrovia. È il ponte di via Stalingrado, e scavalca un dedalo immenso di binari che s’incrociano in una città che delle ferrovie è snodo, e dalle ferrovie è caratteristicamente attraversata in molti dei suoi quartieri. È un ponte alto, dunque, sulla sommità del quale si può anche ammirare una suggestiva skyline: io, ad esempio, la preferisco al tramonto.
Eppure un ponte serve per passarci sopra, non per fermarsi a guardare. Lo faccio in bicicletta per alcuni mesi, da quando ho trasportato la vecchia Galetti artigianale, con cui scorrazzavo (e scorrazzo tuttora) per gli accidentati pavé milanesi, in quel di Bologna, per il mio ultimo periodo lì. Abito in zona Fiera, e per il dipartimento – che senza sorprese si trova in zona universitaria – è la via più breve.
L’impatto col ponte è diverso se si sta andando verso il centro o viceversa: una lunga salita, e (sembra) meno pendente nel primo caso; un “muro”, piuttosto sfidante ma più corto, ad andare a casa. Il servizio strade del comune di Bologna è stato previdente: per gli automobilisti che sfrecciano al lavoro arrivando dalla tangenziale e dalla Fiera, due corsie (a seconda che, giunti alla Porta Mascarella dove il ponte butta nei Viali come un affluente nel corso principale di un fiume, si vada a sinistra e dritti oppure a destra); per chi esce dalla città, una corsia che però si trasforma subito in due appena il lungo declivio comincia a digradare seriamente. A dir la verità, come in molte altre strade di Bologna, non c’è spazio per il marciapiede e la pista ciclable insieme: in questi casi, praticità felsinea vuole che entrambi siano compresi nello stesso spazio, con delle strisce disegnate a segnalarlo. Comunque, questo non cambia la sostanza: il ponte, in bici, va affrontato nel suo manifestarsi essenzialmente come salita, impegnativa da entrambi i punti a valle.
Le discese sono bellissime. Quando vado verso il centro, rimango appena deluso dal sapere che durerà poco; la mia accelerazione progressiva sarà elevata: devo dosare bene i freni e preoccuparmi che i pedoni che incrocio, lenti nelle loro movenze da montanari improvvisati e incedenti a sguardo basso, mi notino e siano consci della mia corsa. Così, preferisco la discesa in direzione opposta: poco sforzo, piuttosto concentrato, a guadagnare il colmo del ponte, e subito l’ampia visuale della discesa che mi si dispiega davanti dà il respiro della montagna appena scalata; e, proprio come in montagna, batte sempre più forte il vento, anche se qui è un’illusione della velocità, un piccolo dono della gravità. Devo solo stare attento a quel tombino (quando, come la maggior parte delle volte, discendo dal lato sinistro del ponte) e all’uscita delle macchine dal complesso sportivo del dopolavoro.
La permanenza in cima dura poco, ma – complice qualche volta in cui sono a piedi – butto sempre un occhio all’orizzonte, specialmente verso la stazione: normale, poiché quello è il lato che faccio più spesso, ed è là che il sole va a buttarsi al crepuscolo: elementare bussola cittadina che mi ricorda, non senza un certo lieve stupore, che i punti cardinali valgono sempre, anche se si è smarriti dentro, e che via Stalingrado è una direttrice Nord della città. Dio sa quante volte ho pensato di portarmi la reflex e di fermarmi a immortalare quella ferraglia sfavillante d’incroci, tale che gli ingegneri ferroviari mi sono sempre sembrati i più intelligenti della categoria. Il fascino di quell’ammasso inestricabile di binari, penso ora, è anche un tardivo riflesso dei miei pensieri sognanti del primo periodo del dottorato, quando via Stalingrado non sapevo nemmeno dov’era – aveva pura entità sonora, facendo solo parte delle curiosità toponomastiche di quella città meravigliosa che mi lamentavo sempre di non riuscire a vivere. Ogni volta che camminavo, lungo la più piana, tipica e porticata via Indipendenza, dal dipartimento alla stazione (soprattutto il venerdì), pensavo sempre che stavo procedendo verso lo snodo baricentrico dell’intero traffico ferroviario italiano, e questo mi dava un senso di libertà (l’ebbrezza di poter andare ovunque, nonostante, di quel nodo, sfruttassi sempre le due solite direttrici Nord-est e Nord-ovest) che ho faticato a ritrovare dopo.
Non ho mai catturato, in forma di foto, il rossore brulicante di quella cartolina in controluce; né i rumori del ponte, che alcune volte ho pensato di fissare sul registratore per interviste: così tipici del veloce traffico automobilistico bolognese, rifratti sui parapetti in pietra dei tratti discendenti del ponte. Porto solo con me le facce, impenetrabili, degli sparuti pedoni e dei pochi ciclisti che come me lo affrontavano scalandolo.
È proprio la salita, il punto. Tutto sommato non sono mai stato in difficoltà di fronte alle salite. Ero o non ero un ciclista “di fondo”, uno che non aveva la potenza e lo scatto per la volata, ma che si piazzava bene “sul lungo” e in montagna? Testa bassa e pedalare: era fisico (il torso magro e stretto, le ossa leggere) ma anche mentale, perché soverchiavo chi non sapeva aspettare e ne raccoglievo i frutti in cima, o giù a valle. Dopo quella BMX cromata con le gomme blu, le bici su cui sfrecciavo da ragazzo erano tutte dotate di cambio, e saperlo dosare era parte della strategia di arrampicata sui pedali.
La Galetti nera e “scasciata”, come disse un giorno L. su quel viale di Milano, quella bici che piace alle ragazze ed è efficiente come l’artigiano veneto che l’ha assemblata, invece, il cambio non ce l’ha. È una bici da città, e la città è piatta, si sa, e Milano – la prosaica, così fottutamente “reale” Milano nel cui intingolo sono immerso da diec’anni, sempre lamentandomene un po’ ma mai riuscendo del tutto a distaccarmene – è la città più piatta delle piatte, piane città di pianura che conosco. Il ponte di via Stalingrado, allora, bisogna affrontarlo così: con la rincorsa, il corpo piegato, ondeggiante di volta in volta da una parte e dall’altra, per calcare i pedali forte, prima che la salita – quella lunga e sfaticante dal lato della periferia – si faccia troppo pendente, perché sennò, poi, non si riesce a recuperare. E a tornare, quando si viene dal centro, è meglio iniziarla subito dalla curva del semaforo, la rincorsa, che sennò – metti anche ci sia qualche pedone che costringe a rallentare leggermente la falcata – è dura anche lì, arrivare in cima senza metter piede a terra.
Io ci ho provato. Sono tre anni che provo a cambiare, ma il cambio non ce l’ho. Prima ho pensato di cambiare bicicletta, ma ho venduto la mia vecchia prima di comprarne una nuova; anzi, no, ne ho comprate due e tutte e due non andavano bene perché le usavo insieme; decidetelo voi: ora, questo, importa relativamente. Poi sono ritornato a quella vecchia, e ho registrato catena e corone, perni e bulloni, ma niente. Mille piccole finiture non fanno un cambio che non c’è.
È da allora, che – anche se il dottorato l’ho finito; anche se non sono più a Bologna e forse non mi manca troppo, perché qui ho tutto; anche se continuo ad oliare e a limare e a registrare, e la Galetti va sempre come deve andare – sono così, viaggio così, vivo così.
Senza cambio ponte Stalingrado.
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domenica 5 giugno 2011
La mia dentista.
Written May 12, 2011 in Milano
Last revised Jun 05, 2011 in Milano
La mia dentista non è come gli altri dentisti, che gigioneggiano falsamente alle nostre spalle mentre ci aprono in due le gengive. La mia dentista è donna, è giovane, è carina, e ha delle bellissime scarpe. Ha un nome biblico-ebraico ma è solamente calabrese di origine, per il resto milanese, come il suo studio. Andare dalla mia dentista per me non è una sofferenza come per gli altri: io dalla dentista so che starò bene. Sarà per i sorrisi che mi fa quando mi vede, che però sono tutt’altro che gigioneggianti e ingannevoli come quelli degli altri dentisti: lei infatti non mi mostra i suoi denti solo per dire “ehi, vedi che denti ho io, tu con me avrai una bocca bella come la mia”, come fanno gli altri dentisti, che sono falsi (perché in fondo non gli interessa se tu avrai un bel sorriso) e compiaciuti (ehi, la mia sì che è una bocca, altro che la tua, anche se te la curo io), come quelli di un venditore che ha avuto troppo successo. No, la mia dentista non è così: lei sorride veramente, e mi mette di buon umore.
La mia dentista non si atteggia a talebana dell’igiene a ogni costo, come – mi raccontano – le igieniste dentali degli studi che hanno un’igienista dentale. L’igienista dentale ha il quasi esclusivo compito di ammonire il paziente con consigli del tipo “se non userà il filo interdentale, i suoi denti si carieranno e sarà la fine”: visione apocalittica quantunque realistica; ma triste, senza speranza. La mia dentista no: si limita a consigliarmi, qualche volta, di prendere l’abitudine ad usare il filo, perché “sarebbe un peccato, con la bocca che ho”; insomma, per la mia dentista, nonostante io sia degno di sorrisi quanto un bambino dalle guance paffute, e abbia, tra gli altri, un dentaccio piuttosto rovinato, sono sufficientemente maturo e responsabile da prendermi cura io stesso della mia bocca, e decidere come e quando voglio usare il filo interdentale. Se solo facessi presa su questa fiducia che lei – la mia dentista – ripone in me, per autoconvincermi, a questo punto l’avrei presa sì, quella maledetta abitudine.
Dicevamo degli sventurati che ogni tanto s’incontrano, immancabilmente, con l’igienista dentale per la pulizia, come Berlusconi con la Minetti. A me, invece, la pulizia me la fa la dentista (che sfigato, Silvio, e pure con tutti quei soldi), due volte l’anno, e alla fine mi mette una pastina rosa che spalma sui denti con un gommino vibrante, che mi piace tanto. Questo è uno dei momenti più belli, un autentico surrogato del momento del gelato da bambino (che peraltro credo abbia causato molti dei problemi di cui la mia dentista si occupa: è proprio vero che non tutto il male vien per nuocere); tuttavia anche gli interventi più impegnativi, con la mia dentista, diventano delle passeggiate, un’occasione per rilassarsi un poco nella grande sala d’attesa anni settanta, prima di distendersi comodamente su uno dei suoi lettini. Lei, quando serve, mi fa delle anestesie le cui punture faccio persino fatica a sentire – poiché usa un ago fatato da quanto è inconsistente – ed esse mi preservano da qualunque tipo di dolore. Inoltre, ogni volta che sottopongo a qualche intervento serio (come l’estrazione del dente del giudizio), non provo mai nessun dolore particolare, né incontro alcuna complicanza successiva, e questo depone ancor di più a favore della mia dentista. La mia dentista.
La mia dentista, non ve l’ho ancora detto, è minuta, ha i capelli corti un po’ a caschetto tra il castano chiaro e il fulvo e ha dei bellissimi occhi verdi. I suoi collaboratori sono ok, il chirurgo che viene per le estrazioni è simpaticissimo e competentissimo, però è proprio lei, la mia dentista, che fa la differenza. Così, almeno in questa cosa, mi sottraggo alle umane sofferenze di tutti gli altri, là fuori, che corrono per le circonvallazioni su e giù dai tram andando malvolentieri dai loro dentisti. E come non compiangerli, del resto: non vanno mica dalla mia dentista, loro.
Last revised Jun 05, 2011 in Milano
La mia dentista non è come gli altri dentisti, che gigioneggiano falsamente alle nostre spalle mentre ci aprono in due le gengive. La mia dentista è donna, è giovane, è carina, e ha delle bellissime scarpe. Ha un nome biblico-ebraico ma è solamente calabrese di origine, per il resto milanese, come il suo studio. Andare dalla mia dentista per me non è una sofferenza come per gli altri: io dalla dentista so che starò bene. Sarà per i sorrisi che mi fa quando mi vede, che però sono tutt’altro che gigioneggianti e ingannevoli come quelli degli altri dentisti: lei infatti non mi mostra i suoi denti solo per dire “ehi, vedi che denti ho io, tu con me avrai una bocca bella come la mia”, come fanno gli altri dentisti, che sono falsi (perché in fondo non gli interessa se tu avrai un bel sorriso) e compiaciuti (ehi, la mia sì che è una bocca, altro che la tua, anche se te la curo io), come quelli di un venditore che ha avuto troppo successo. No, la mia dentista non è così: lei sorride veramente, e mi mette di buon umore.
La mia dentista non si atteggia a talebana dell’igiene a ogni costo, come – mi raccontano – le igieniste dentali degli studi che hanno un’igienista dentale. L’igienista dentale ha il quasi esclusivo compito di ammonire il paziente con consigli del tipo “se non userà il filo interdentale, i suoi denti si carieranno e sarà la fine”: visione apocalittica quantunque realistica; ma triste, senza speranza. La mia dentista no: si limita a consigliarmi, qualche volta, di prendere l’abitudine ad usare il filo, perché “sarebbe un peccato, con la bocca che ho”; insomma, per la mia dentista, nonostante io sia degno di sorrisi quanto un bambino dalle guance paffute, e abbia, tra gli altri, un dentaccio piuttosto rovinato, sono sufficientemente maturo e responsabile da prendermi cura io stesso della mia bocca, e decidere come e quando voglio usare il filo interdentale. Se solo facessi presa su questa fiducia che lei – la mia dentista – ripone in me, per autoconvincermi, a questo punto l’avrei presa sì, quella maledetta abitudine.
Dicevamo degli sventurati che ogni tanto s’incontrano, immancabilmente, con l’igienista dentale per la pulizia, come Berlusconi con la Minetti. A me, invece, la pulizia me la fa la dentista (che sfigato, Silvio, e pure con tutti quei soldi), due volte l’anno, e alla fine mi mette una pastina rosa che spalma sui denti con un gommino vibrante, che mi piace tanto. Questo è uno dei momenti più belli, un autentico surrogato del momento del gelato da bambino (che peraltro credo abbia causato molti dei problemi di cui la mia dentista si occupa: è proprio vero che non tutto il male vien per nuocere); tuttavia anche gli interventi più impegnativi, con la mia dentista, diventano delle passeggiate, un’occasione per rilassarsi un poco nella grande sala d’attesa anni settanta, prima di distendersi comodamente su uno dei suoi lettini. Lei, quando serve, mi fa delle anestesie le cui punture faccio persino fatica a sentire – poiché usa un ago fatato da quanto è inconsistente – ed esse mi preservano da qualunque tipo di dolore. Inoltre, ogni volta che sottopongo a qualche intervento serio (come l’estrazione del dente del giudizio), non provo mai nessun dolore particolare, né incontro alcuna complicanza successiva, e questo depone ancor di più a favore della mia dentista. La mia dentista.
La mia dentista, non ve l’ho ancora detto, è minuta, ha i capelli corti un po’ a caschetto tra il castano chiaro e il fulvo e ha dei bellissimi occhi verdi. I suoi collaboratori sono ok, il chirurgo che viene per le estrazioni è simpaticissimo e competentissimo, però è proprio lei, la mia dentista, che fa la differenza. Così, almeno in questa cosa, mi sottraggo alle umane sofferenze di tutti gli altri, là fuori, che corrono per le circonvallazioni su e giù dai tram andando malvolentieri dai loro dentisti. E come non compiangerli, del resto: non vanno mica dalla mia dentista, loro.
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