lunedì 20 maggio 2024

The Bologna files / 2 (se una notte d'estate un pensatore)

Written probably some day of June 2009, somewhere
Edited March 27, 2010 God knows where

O Dio, trovarmi di nuovo in questa situazione, di totale annullamento di me, sciogliermi dentro qualcosa che non è il sé, una birra, una città, dei suoni. Seguire quello che mi passa per la mente adesso, senza nessuna apparente connessione, né razionalità, o logica. Dio santo, dev’essere Bologna, dev’essere qualcosa nell’aria o solo il tempo che è cambiato, la brezza che ha incominciato a battere i lembi di pianura da stamattina, inturgidendo leggermente i miei pori, e probabilmente anche quelli delle persone, sparute, che ho incontrato sulla strada verso la stazione.
Da quanto non provavo quella sensazione? Aspetta, quale sensazione? Forse non da molto, dopotutto non è successo niente di che, solo un fremito, un paio di movimenti, un cenno col capo di qualcuno, forse di Gionata, o forse di Roxanne, Roxanne – Dio, che cos’ha Roxanne questi giorni? Ma che dico questi giorni, da mesi a questa parte, forse da quando la conosco, quel misto di rossore, pudicizia e istinto che sale dalle viscere, non è bella Roxanne, Dio no, non sei bella Ro, ma, ma hai qualcosa, il susseguirsi di movimenti rapidissimi delle pupille, ma non come le altre, non le muovi su e giù nervosamente, come per inquadrare, inquadrare qualcosa che non riesci a spiegarti (di solito è questo l’effetto che faccio alle donne che conosco, non riescono a inquadrare il mio viso irregolare), no, sembri tenerle fisse quelle pupille, colore scorza di nocciola, scure come la corteccia, il nero centrale quasi a confondersi, e c’è dell’altro, ma non riesco ad afferrarlo, Dio, non so cos’è – insomma probabilmente meno d’un batter d’ali di farfalla, sul tavolaccio alla trattoria, ma c’è stata una sintonia, qualcosa che ci univa, e che – così – non provavo da tempo. Aspetta, che sto dicendo, così non l’ho mai provato.
Ma sì, dev’esser l’aria quasi fredda che ha invaso i vicoli del centro, la luce che si protrae solo nelle migliori giornate di fine giugno, così a lungo, probabilmente qualche volto incrociato per strada – e che come nelle puntate di Colombo in cui si parla di pubblicità subliminale, Dio, che ingenue – ti lascia qualcosa addosso, senza che tu lo capisca subito, né capisca cos è. Dicevo, l’annullamento di sé, non capisco se è perché mi odio o quella solita storia vecchia come il mondo che dice “vorrei essere un altro”, una storia sconosciuta peraltro, fino a un po’ fa, ma ora ben nota, vicina, quasi l’avessi scritta io, come incisa su una pietra con gli strumenti dello scultore. Essere qui ma voler essere da un’altra parte. No, non è quel desiderio di impossibile raggiungimento di un ideale che non c’è, che non saremo mai, no, Dio santo, basterebbe lo spazio occupato a fianco, con le belle more ricciolute sedute sulla ringhiera a spiluccare una pizza, o al locale friulano all’angolo, che mi sa tanto stia ospitando qualche musicista jazz, ma non distinguo, non distinguo più i suoni né i colori, potrebbero provenire tutti dalla stessa fonte e da mille diverse, e soprattutto non m’importa – sì, la prendo come una vittoria – non m’importa nulla di sapere che sono, né da dove vengono, né chi li ha inventati, né perché. È una domanda che andrebbe eliminata, “perché?”, anzi, una parola, eliminare la parola, Dio, se fosse in mio potere agire sul linguaggio, su ciò che di più sedimentato – eppure di diverso, e di vario – hanno gli uomini, di intoccabile, che nessuno pensano avergli consegnato se non la Storia, o Dio in persona, come un cavaliere biondo dall’armatura specchiata con una spada luccicante, che dona al Primo degli Uomini affinché egli favelli, e così tutti i suoi consimili. Andrebbe eliminata, almeno come domanda, non so, lasciamola libera di esistere solo in – poche, accurate, selezionate mio Dio – risposte, cioè affermazioni, ma senza quell’insulso, fastidioso, assillante premerci addosso al cuore – sto soffocando – sempre quella stessa, dannata e maleodorante parola – perché?
Non c’è nessun perché, c’è solo un come. Esistono disposizioni d’essere, non dispositivi. Disporre dovrebbe essere un verbo libero, franco. Nessuno istituisce la causa di qualcosa, perché le cause non esistono. Niente è causato da nessun’altra cosa, cioè da un altro niente. Esiste e basta. Ogni niente esiste di per se stesso e solo di per se stesso, non in virtù di qualcos’altro, chiunque sia questo qualcos’altro che pretende di avere a che pretendere qualcosa su quel primo niente. Ma con quale diritto? Con che arroganza?

Dev’essere decisamente la brezza che, oramai sera fatta, sembra quasi penetrare il vetro a doppia camera dell’edificio. È come se la sentissi, che dico come se – als ob, diceva un mio vecchio zio –, io la sento. Anzi, dirò di più, non solo non ci sono separazioni fisiche (fisiche? Cos’è questa parola? Che significa? “Di natura?” Cos’è questa cosa chiamata natura, che pretende di essere riconosciuta da esseri che non possono, non hanno la facoltà – e tanto meno il diritto – di riconoscere alcunché?) tra me e la brezza, perché la brezza è in me anche se c’è uno spesso vetro in mezzo, ma non esistono le sensazioni, o meglio, non c’è nessun dato esterno di natura che deve essere sentito da nessun animale con terminazioni nervose e complessi neuronali che le organizzano, assolutamente no, ragazzi, ci hanno raccontato delle gran fandonie, niente di tutto questo è reale, anzi reale non è niente di tutto questo, e soprattutto non significa niente. Reale dovrebbe coincidere con esistente? E chi gli ha fatto questo favore, al “reale”, di concedergli un che di così nobile come l’esistenza? Ma che ne sa lui? Io sento la brezza, eppure non è reale direte voi, ma che cosa conta davvero? Il reale o la brezza che sento? Mentre non so nulla di questa cosa che si chiama “reale”, so tutto della brezza, perché è in me e mi ha accarezzato prima. Ma soprattutto, per quelli di voi che pensano che quindi la brezza è perché la sento, cioè è una sensazione, no, cari miei, essa è perché io la istituisco, qui e ora, su questo foglio di carta, o su questo insieme di byte, o su quello che cazzo è.

È quasi interamente passato, Dio, è durato poco, un momento veramente fugace, sta finendo, maledizione, come tutte le cose quando si inizia a divertirsi. Non posso pensare che siano state le due dita di vino. Dio non l’avrebbe permesso. L’annullamento del sé, dicevamo. Non c’entra assolutamente nulla con tutte quelle cazzate tipo “mi voglio suicidare, mi voglio annichilire con della droga”, tutte puttanate che penserebbero solo dei pervertiti del pensiero come voi, che mi state leggendo. L’annullamento del sé è una cosa bella, dovreste pregare perché vi succeda una volta, non ho praticamente mai assunto una droga in vita mia – ma poi che ne sapete, voi, di cos’è la droga, che ne sapete di quando la mente fa davvero dei brutti scherzi –, quando avviene desidereresti essere quell’altra cosa che stai pensando, ma davvero, e questo è bellissimo, perché nessuno che abbia un minimo di sale in zucca vorrebbe rimanere per più di due soli secondi in quello che è, non ci guadagni niente, hai solo che da perderci.

Dev’essere il ritorno a Bologna dopo molto tempo. Un cenno di Roxanne. No, nessun cenno, solo il suo sguardo. Unito ovviamente ai mille miei. Non è niente che si possa descrivere come amore o attrazione sessuale tutto questo. Amore, Dio santo, mai sentito un concetto più banale. Chiunque l’abbia inventato, non è che fosse in gran forma quel giorno, eh? È l’insieme delle cose che mi ha provocato questa reazione. La sensazione di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato completa il quadro, facendolo diventare semplicemente perfetto. Qualcuno parla al microfono del centro. Non ha la più pallida idea che questo condisce con un tocco mirabile la perfezione di questo momento. Spero si renda conto della sua pusillanimità assoluta quando la sua esistenza qui ed ora non venga interamente spiegata dal servirmi come addobbo inutile e scarno del mio quadro di perfezione. Al di fuori di questo, è ovviamente una nullità. Ho mandato una mail con un punto alla fine della frase, iniziata in minuscolo, e un punto a capo.
Questa è la cosa migliore che ho fatto nella mia vita.

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